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Immagine del redattoreGennaro Malgieri

Wojtyla, il Papa che illuminò il mondo e diede una speranza alla cristianità


È sorprendente come a diciassette anni dalla sua morte e a quarantacinque anni dalla sua ascesa al Soglio pontificio, la memoria di Giovanni Paolo II sia più viva che mai.

Constatiamo in questi giorni un interesse diffuso, soprattutto sul web, che ha qualcosa di “miracoloso”.

L’anniversario della lunga agonia terminato in una tiepida sera di primavera accende di commozione, ma rinnova anche il ricordo di un’ immagine serena che entrò con quietamente nelle nostre vite, con la forza di un sorriso che rivelava l’eccezionalità di una storia che stava per iniziare, in un autunno che pure era avaro di promesse e nessuno avrebbe immaginato che quell’uomo mite e sereno avrebbe cambiato la storia.

Il giovane Papa appena eletto, che la sera del 16 ottobre 1978 dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro si mostrò benedicente i credenti ed i non credenti, scese nel cuore dei cristiani così profondamente da mutare nello spazio di pochi minuti la percezione ordinaria che si aveva del Vicario di Cristo.

E non ci fu chi non restò abbagliato dalla eccezionalità della figura che si mostrava con la semplicità di un Pastore che aveva percorso un lungo cammino. Veniva da una terra lontana, come si premurò di dire nella breve e toccante allocuzione, per essere Pontefice della Chiesa romana.

Il suo nome, incomprensibile ai più al momento dell’annuncio, Karol Wojtyla, si fece chiamare Giovanni Paolo in omaggio al suo predecessore, Albino Luciani, che aveva regnato soltanto trentatré giorni.

Dopo quell’elezione a sorpresa ed un pontificato straordinario sotto tutti i punti di vista durato 26 anni, 5 mesi e 17 giorni, fino al 2 aprile 2005, e segnato, tra l’altro, dalla universalità di una missione compiuta senza precedenti (104 viaggi in tutto il mondo) e da un attentato subito il 13 maggio 1981 per mano del terrorista turco Alì Agca che due anni dopo, in prigione, volle personalmente perdonare, il Papa polacco, resta un saldo punto di riferimento tanto che da quattordici anni lo si ricorda in occasione della scomparsa: quest’anno, non sappiamo perché, con maggiore intensità.

Proclamato Santo, per volontà dei suoi immediati successori Benedetto XVI e Francesco – il primo lo beatificò il 1 maggio 2011, il secondo lo canonizzò concludendo la procedura il 27 aprile 2014 imponendone la celebrazione il 22 di ottobre, giorno del suo insediamento papale – ha penetrato come nessun altro nel nostro tempo la crisi della modernità facendosi, simultaneamente, promotore di una speranza incarnata dai suoi atti apostolici e da una fede visibilmente vissuta.

Giovanni Paolo II, infatti, ha attraversato la sua epoca avendo ben presente l’inequivocabile tendenza alla scristianizzazione e alla perdita del sacro alla quale si è opposto con tutte le armi che aveva a disposizione, in qualche modo arrestandola, ma non vincendola del tutto.

L’impresa, del resto, era impossibile perfino ad un atleta della fede come Karol Wojtyla.

Ed i due pontefici che si sono succeduti hanno avuto di fronte il suo stesso universo morale e culturale.

Alla morte di Giovanni Paolo II si sperava che chi ne avrebbe preso il posto sarebbe stato in grado di limitare i danni dell’ateismo e del laicismo dilaganti tra la fine dello scorso Millennio ed il debutto del nuovo: Papa Ratzinger, successore naturale di Papa Wojtyla, ci ha provato in tutti i modi a combattere il relativismo e ad opporsi al nichilismo, ma di fronte alla decadenza della Chiesa, minata da interne congiure e profondamente squassata moralmente, ha sentito venir meno le forze necessarie per combattere ed ha clamorosamente lasciato, non senza soffrire per la sua scelta che dal 2013 vive come una pena, appartato ed incompreso; Papa Francesco, invece, è assorbito dalla modernità, per vocazione e cultura, non sembra in grado di arginare le piaghe che minano la cattolicità come il suo travagliato pontificato dimostra.

Giovanni Paolo II, alla fine degli anni Settanta, si trovò a dover fronteggiare una crisi che avrebbe demolito le fondamenta stesse della Chiesa se al processo di distruzione non si fosse opposto energicamente: la Curia era divisa, la secolarizzazione postconciliare aveva fatto strame della liturgia mutando i connotati del cattolicesimo praticato, la “teologia della liberazione” apertamente s’impegnava a piegare l’insegnamento cristiano alla logica della rivoluzione marxista, stravolgendo gli stessi fondamenti del cristianesimo, mentre l’imperialismo comunista faceva ancora la sua parte e ci sarebbero voluti almeno dieci anni per sconfiggerlo, con la politica, la fede, il richiamo ai valori umani primari ed intangibili: un’opera immane alla quale il Pontefice si applicò con forza e dedizione.

Non a caso Giovanni Paolo II cominciò dall’America Centrale la sua predicazione ed uno dei primi viaggi lo fece in Messico, a Puebla, dove, in occasione del Congresso eucaristico, pronunciò uno dei discorsi più forti del suo esordio pastorale mettendo in guardia la Cristianità dai pericoli incombenti.

Lui, che conosceva bene il comunismo, era certamente al corrente delle disposizioni che Lenin impartì a Maxim Gorki a proposito della religione che, sosteneva, era necessario “attaccarla dall’interno, provocando dispute, lotte e scismi fra coloro che la professano, in modo da creare confusione tra i credenti, da generare dubbi, incertezze e, infine, la perdita della fede”.

L’unità della Chiesa, il ristabilimento della verità, la riproposta della Tradizione che a molti, nelle stesse istituzioni ecclesiastiche fece storcere in naso, sono stati i fondamenti del magistero di Papa Wojtyla, consapevole che le divisioni avrebbero fatto naufragare la fede ed avrebbero aperto le porte a quella confusione cui alludeva Lenin.

La lezione “politica” di Wojtyla ha radici profonde. Il suo pontificato non si comprende se non partendo da essa, complessa nella struttura – fatta di libri, encicliche, lettere apostoliche, discorsi – e dinamica perché calata nella realtà dei popoli, delle nazioni e del governo del mondo.

L’anticomunismo di Giovanni Paolo II non è stato, dunque, soltanto dottrinario, ma pratico: oltre che rivolto alla liberazione dell’universo concentrazionario, ha avuto lo scopo di difendere la Chiesa da uno dei suoi nemici più implacabili, il materialismo pratico dominante nelle società opulente.

Con la sua prima enciclica, la Redemptor Hominis, un testo apertamente “cristocentrico”, il Pontefice esaminava la decadenza e ne indicava il superamento nella riscoperta del primato della persona messa in discussione dal dominio totalizzante della tecnica: “Esiste già – scriveva – un reale e percettibile pericolo che mentre progredisce enormemente il dominio dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale.

L’uomo non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l’uomo a tale schiavitù”.

In questa enciclica la polemica contro il materialismo pratico ed il relativismo etico era esplicita e suscitò importanti discussioni dentro e fuori la Chiesa. Ravvisando nei due fattori i segni evidenti della decadenza e del nichilismo, il Papa sosteneva che soltanto il ritorno al diritto naturale e, dunque, alla legge di Dio avrebbe potuto sottrarre l’uomo al destino di diventare un automa, rotella di un ingranaggio infernale nel quale avrebbe smarrito con la sua coscienza anche la sua stessa libertà.

Encicliche come la Laborem exercens, la Sollicitiudo rei socialis e soprattutto come la Centesimus annus – senza dimenticare le altre, naturalmente – sono le “chiavi” che permettono la penetrazione più immediata del pensiero di Giovanni Paolo II sui mali della nostra epoca.

In particolare l’ultima delle tre encicliche citate, redatta per celebrare il centenario della Rerum novarum di Leone XIII, si opponeva all’errata concezione della natura della persona scaturita dall’ateismo, “strettamente connesso con il razionalismo illuministico che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico”.

Mentre criticava lo statalismo, Papa Wojtyla in questo testo censurava anche uno dei modelli affermatisi dopo la seconda guerra mondiale, vale a dire la società del benessere e dei consumi. “Essa – sottolineava – tende a sconfiggere il marxismo sul terreno di un puro materialismo, mostrando come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali”.

Se è vero che questo modello sociale mostrava il fallimento del comunismo, aggiungeva il Papa, è altrettanto vero che negando autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura ed alla religione, convergeva di fatto con il marxismo “nel ridurre totalmente l’uomo alla sfera dell’economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali”. Insomma, sottolineava Giovanni Paolo II, che affidava al “partecipazionismo” la soluzione dei conflitti sociali ed il superamento della “umiliazione” dei valori della persona, la dottrina sociale della Chiesa “riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma indica nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune. Inoltre essa “riconosce anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell’azienda, di modo che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso, ‘lavorare in proprio’ esercitando la loro intelligenza e libertà”.

Con queste espressioni forti e suggestive il Papa rinvigoriva la sua polemica contro il materialismo pratico lanciata nelle precedenti encicliche fino a chiamare sul banco degli imputati i sistemi politici che generano disfunzioni sociali ed allontanano dalla sfera pubblica i cittadini.

La Chiesa, osservava, “non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali, per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato”, ed auspicava anche in campo politico “la creazione di strutture di partecipazione e corresponsabilità” in grado di avvicinare il popolo allo Stato.

Un messaggio chiaro contenente il rifiuto sempre opposto di assecondare lo “scontro di civiltà” cui opponeva la ricerca delle condizioni per costruire ponti tra religioni e culture; è questo, forse, il lasciato più significativo del grande Pontefice che ha interpretato meglio di qualunque filosofo, politico o morfologo della storia le distorsioni della modernità ed ha indicato la via sulla quale procedere per superare l’orizzonte nichilista, come testimonia, con un’efficacia straordinaria, il suo testamento spirituale, Memoria e identità, pubblicato due mesi prima della morte, nel quale si applica alla ridefinizione di concetti-chiave della politica infirmati da ideologie e pratiche di potere che li hanno utilizzati distorcendoli: Patria, Nazione, Stato, Europa, Democrazia.

Tra l’altro vi si legge – e non può che destare stupore per la indiscutibile attualità della tesi – che “la patria è una grande realtà.

Si può dire che è la realtà al cui servizio si sono sviluppate e si sviluppano nel tempo le strutture sociali…”. Come la famiglia, osservava, anche la nazione e la patria restano realtà non sostituibili: “La dottrina sociale cattolica parla in questo caso di società ‘naturali?, per indicare un particolare legame, sia della famiglia che della nazione, con la natura dell’uomo, la quale ha una sua dimensione sociale”. E ancora: “L’identità culturale e storica delle società è salvaguardata ed alimentata da quanto è racchiuso nel concetto di nazione”.

Valori ed idee che si stanno snaturando. E Karol Wojtyla, cioè San Giovanni Paolo II, ci manca immensamente, come quel suo contagioso sorriso che illuminò il mondo e diede una speranza alla Cristianità.

Sarà per questo che se ne avverte la mancanza e ci si rivolge a lui con la stessa nostalgia feconda che immediatamente inondò le nostre anime la sera in cui, come venne annunciato in quell’aprile di quattordici anni fa, “toccò la mano del Signore” ponendo fine alla sua giornata terrena.




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