Sull’apertura di Via Romana, tra peana di autocompiacimento e sproloqui di vario genere, si leggono ricostruzioni molto, ma molto parziali e perlopiù poco veritiere.
Si badi, il ritorno alla funzione di arteria della Città di una strada antica, inopinatamente lasciata dalla Provincia all’uso esclusivo della fabbrica a metà o poco più del secolo scorso, spaccando in due Colleferro, è un traguardo a lungo atteso.
E non saremo certo noi a criticare chi oggi ha avuto la fortuna di tagliare il nastro sanando una ferita del passato.
Di più, ci uniamo all’emozione del sindaco attuale, riconoscendogli, come è giusto che sia, il merito di non aver fatto cadere nel vuoto una speranza coltivata da anni, nel segno di quella continuità amministrativa di cui chi governa dovrebbe sempre armare il proprio animo nel rispetto dei superiori interessi della comunità. Ma dovrebbe farlo sempre, non soltanto in alcune circostanze.
Sì, perché è proprio questo il punto. Tra le frasi ad effetto che abbiamo sentito pronunciare ce ne è una che suona proprio male: l’aver affermato che l’apertura della strada nell’anno di grazia 2024 è la risposta a chi “l’aveva promesso senza riuscirvi”.
A parte la caduta di stile di una simile affermazione che non merita commento, ci sono da ricordare alcune questioni che sommariamente cerchiamo di riassumere.
Fino agli anni Novanta, nessuno, sottolineo nessuno, si era mai occupato di via Romana.
Erano gli anni in cui a Colleferro la dirigenza della fabbrica, in pieno clima fordista, la faceva da padrone.
Fino al punto di determinare persino la composizione dei Consigli comunali, trafficando (il “padrone”) con particolare maestria tra partiti (di sinistra) e sindacati accomodanti.
Le giunte ne erano, ovviamente, il conseguente corollario.
Fatto sta che via Romana non si poteva toccare e, con via Romana, gran parte delle aree industriali dismesse.
E’ utile ricordare che, in quegli anni, per effetto dei processi di finanziarizzazione dell’economia, la produzione industriale si era notevolmente ridotta, una gran parte degli operai era finita in cassa integrazione, fioccavano licenziamenti, accompagnati da concreti rischi di chiusura. Insomma, il clima non era dei migliori.
Vivemmo giorni tempestosi. Eppure, di lì a non molto, le cose cominciarono a cambiare. Cambiarono i protagonisti nella sede comunale e si avviò una fase di riscatto dell’intera comunità nei confronti di chi, la Fiat, divenuta nel frattempo proprietaria della fabbrica, pensava di poter scandire la vita della città privilegiando sempre e comunque gli interessi del grande capitale, ossia i propri interessi.
Ricordo, essendone stato direttamente coinvolto nella qualità di Sindaco, i duri confronti con il management e con la proprietà dell’industria torinese per salvare il salvabile di una sedimentata cultura industriale, fiorita negli anni grazie alle maestranze e all’elevato livello di ricerca ereditato dalla gloriosa BpD, nonché di un indotto che si era sviluppato in maniera forse fin troppo legata alla sola produzione della grande fabbrica. Da quei confronti l’amministrazione del tempo uscì vittoriosa. Fu avviata una enorme e fruttuosa riconversione industriale. Se oggi esiste e prospera Fiat Avio, inviando in orbita satelliti prodigiosi grazie al vettore Vega, ideato e prodotto a Colleferro dall’ingegno di alcuni ingegneri di talento di cui conservo un piacevole ricordo, a cominciare dagli ingegneri Grande e Fabrizi, lo si deve alla determinazione di quegli uomini, di quel management e di quella comunità civile e politica che non si diede mai per vinta.
Pochi sanno che per imporre in sede europea il progetto Vega si dovettero superare non poche difficoltà.
In sede Esa, l’Agenzia spaziale europea, la Francia si batteva per garantire un futuro al lanciatore Ariane e non vedeva di buon occhio la concorrenza del Vega. Nel sottile e complesso gioco di equilibrio tra i partner europei, l’Italia era considerata il partner più debole, una sorta di cenerentola dello Spazio.
Il tempo, poi, è stato galantuomo.
Il Vega si è imposto, con ricadute positive sul mercato internazionale.
Voi direte: che cosa c’entra tutto questo con via Romana? C’entra, eccome. Perché proprio in quegli anni Novanta il Comune elaborò un Piano articolato e complesso che avrebbe segnato il destino futuro della città.
Una pianificazione strategica che , da un lato, mirava a restituire alla città porzioni di territorio industriale non più produttivo (l’industria si andava dislocando verso zone più lontane dal centro urbano) mentre, dall’altro lato, si avviava la definizione del Sistema logistico integrato, tanto avversato, all’epoca, dall’opposizione di sinistra quanto fruttuoso ed esaltato oggi per aver accolto Amazon, Leroy Marlin, prossimamente Unieuro e tante altre realtà che hanno trovato in quel sistema la giusta e più proficua ubicazione.
Quanto questi progetti abbiano garantito sviluppo e occupazione nel nostro territorio è, oggi, sotto gli occhi di tutti.
In quel contesto di grande elaborazione e costruzione di Futuro, la via Romana fu sempre indicata come una via da recuperare. E con essa i manufatti dove, una volta, si effettuavano lavorazioni di esplosivi e non solo, importante patrimonio di archeologia industriale il cui valore storico-architettonico non può sfuggire a chi abbia davvero a cuore la storia industriale di Colleferro.
E preservi il ricordo doloroso dei tanti sacrifici umani di lavoratori e maestranze che in quei luoghi lasciarono la vita.
Ovviamente, per riaprire via Romana occorreva attendere che la strada tornasse pienamente percorribile senza rischi e pericoli. La presenza della Caffaro, industria chimica dai lasciti terribili in termini di inquinamento, doveva essere smantellata. La produzione di esplosivi dislocata altrove. E altri opifici messi in assoluta sicurezza.
Tutto questo ha richiesto tempo.
Ma se non avessimo, sempre in quegli anni, iniziato a recuperare porzioni di area industriale dismessa (si pensi ai capannoni riqualificati in Distretto sanitario o a quelli oggi sede di museo, di aule per convegni e incubatori d’impresa) non si sarebbe mai potuta invertire la rotta. E via Romana sarebbe rimasta nel libro dei sogni. Insomma, c’è stato un Comune, a cavallo tra la gli anni Novanta e il nuovo Millennio, che ha voluto e saputo imporre il suo legittimo diritto ad espandersi laddove un tempo insistevano solo opifici.
Mi fermo qui. Anche se ci sarebbe ancora molto da raccontare. Un’ultima postilla. Via Romana era un tempo lastricata da sampietrini. Averla asfaltata è un cedevole omaggio alla modernità. Ma pesa come un macigno questo stravolgimento non richiesto della storia della città di fondazione.
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