Libri a cura di Silvano Moffa
Nell’Ottocento il colonialismo europeo andò di pari passo con il ricorso alla deportazione.
Olindo De Napoli, attento studioso della cultura giuridica italiana dell’Ottocento e del Novecento, ricostruisce in un interessante saggio la storia della deportazione penale in quell’Italia attraversata da grandi dibattiti non solo giuridici. Una ricerca che mostra come la deportazione sia stata a lungo una proposta realmente in campo, tutt’altro che anacronistica.
Quanto di questo dibattito fosse “coloniale” e quanto “penale” è un po’ il filo conduttore del volume di Olindo De Napoli.
Per vari secoli, milioni di condannati sono stati deportati in località lontane. Prima della Grande guerra, il paese con il più grande numero di deportati è stata la Russia zarista: tra il 1590 e il 1917 furono deportate per lo più in Siberia circa 1.900.000 persone, di gran lunga la cifra più elevata (che sarebbe stata seguita da quella ben maggiore dell’Unione Sovietica).
Per gli altri casi, si trattò soprattutto del trasporto di detenuti oltremare, in isole lontane dalla madrepatria, da parte di imperi coloniali.
Le rotte erano dunque intra-imperiali: seguivano le rotte oceaniche degli imperi. Molti dei grandi imperi d’oltremare praticavano la deportazione penale, in particolare quelli iberici, quello britannico e quello francese.
L’impero britannico tra il 1618 e la fine del secondo conflitto mondiale arrivò a deportare 376.000 persone e quello francese in un periodo simile (1541-1953) circa 100.000.
Quando l’Italia si unificò, ricorda l’autore, la Francia aveva da poco intensificato la sua politica di deportazione coloniale. Napoleone III aveva fondato nel 1852 la colonia penale nell’Isola del Diavolo alla Caienna, nella colonia della Guyana, sia per espandere l’impero che per contribuire all’arricchimento della metropoli.
La colonia penale alla Caienna, famigerata anche per essere usata come esilio di prigionieri politici, ebbe un esito disastroso, con migliaia di morti tra i condannati, tanto che a partire dal 1864 il flusso dei deportati si diresse verso un’altra colonia, la Nuova Caledonia. La Gran Bretagna, invece, a partire dagli anni Cinquanta, andava diminuendo il flusso di detenuti verso l’Australia, anche a causa delle forti proteste provenienti dallo stesso mondo coloniale, fino alla totale abolizione della transportation ne 1867.
Soprattutto negli anni Settanta, i protagonisti del dibattito italiano sulla deportazione penale guardarono proprio a questi due esempi, valutandoli di volta in volta come casi virtuosi oppure fallimentari. Lo stesso partito favorevole alla deportazione era diviso al suo interno sul modello da seguire.
C’era chi, come l’esploratore Cerruti ammirava la deportazione australiana e chi, come il giudice de Foresta, propendevano per il modello francese.
Gli Stati preunitari, invece, fornivano esempi poco spendibili ai patrioti divenuti élite politica del Regno d’Italia.
Il tentativo borbonico del 1859 di deportare all’esilio negli Stati Uniti alcuni detenuti politici, tra cui Pica, Poerio e Spaventa, era finito malamente, con il dirottamento della nave in Irlanda dove i deportati erano stati accolti come eroi dai gruppi italofili.
Perciò, per alcuni versi, la deportazione era associabile alla repressione dei dissidenti politici.
Nell’Italia liberale il tema della deportazione si dipanò lungo due binari.
Da un lato rispondeva allo scopo di allontanare i criminali, nel mentre, dall’altro lato, prendeva campo lo sfruttamento del lavoro coatto e il rafforzamento demografico nelle zone di frontiera. Insomma, la mobilità dei condannati era fondamentale per ottenere e progettare colonie, gestire le frontiere, spianare la strada all’immigrazione libera, estrarre lavoro coatto. Quest’ultimo era un tratto tipico delle società coloniali ottocentesche.
“Tanto che si è affermato – annota De Napoli – che sarebbe difficile configurare nella prima età moderna un colonialismo di popolamento, senza il sistema di transportation e del lavoro coatto che ad essa si associava”.
Negli anni Sessanta non era affatto chiaro quale direzione avrebbe preso lo Stato unitario sul tema della penalità. Nella Toscana dei Lorena era stata abolita la pena di morte. Una posizione che aveva fatto breccia in particolare tra i professori di diritto penale. I quest’ottica la deportazione andava assumendo la funzione di pena alternativa. Scrive lo storico:”
A promuovere la deportazione lungo quattro decenni di storia unitaria furono uomini di avventura e ambasciatori, navigatori e ufficiali, giuristi e giornalisti, romanzieri e scienziati, utopisti e reazionari: autori eterogenei per formazione e orientamento, ma accomunati dall’idea che la sua introduzione avrebbe segnato un’era di grandi vantaggi”. Il discorso della deportazione, insomma, fu anche un riflesso di progettualità grandiose.
“Furono idee grandiose non solo nei numeri – nei vari progetti, da Caranti a Scovasso, si prevedeva di arrivare gradualmente a deportare decine di migliaia di persone, l’intera popolazione detenuta – ma anche nell’ambizione generale che la deportazione rappresentava, come occasione di espansione nazionale, di riscatto sociale per intere masse e di risoluzione della questione della criminalità, che vedeva l’Italia nei primi posti in Europa per la diffusione del crimine violento. Altri, come i positivisti, più che utopie penalistiche immaginarono semplicemente progetti avveduti e scientificamente fondati, vuoi per eliminare dal corpo sociale i criminali incorreggibili, in linea con la loi des récidivistes approvata in Francia nel 1885, vuoi per dare la possibilità ad autori di reati d’occasione di ottenere la sospensione condizionale della pena lavorando in colonia.
In questi casi, la deportazione, pur non essendo oggetto di progetti grandiosi, rimaneva comunque segno di una progettualità pensata, che si voleva fondata su basi scientifiche e si indirizzava a soggetti ben precisi”. In questa guisa l’autore richiama il singolare particolare che, nonostante il fervore del dibattito sulla complessa e delicata questione e il confronto serrato tra le varie posizioni, alla fine l’unico caso di deportazione messo in atto fu realizzato in maniera frettolosa, disorganizzata e incoerente con qualsivoglia teoria penale. Ci riferiamo ai 196 deportati ad Assab nella crisi di fine secolo i quali scontarono l’assenza di qualsivoglia teoria di recupero sociale come base e furono trattati come detenuti da punire e contenere.
Interessante è anche la ricostruzione che Olindo De Napoli offre al lettore circa quelli che potremmo definire i prodromi del dibattito sulla deportazione che infiammò il periodo preso in esame nel saggio. Ossia i primi progetti per la repressione del grande brigantaggio. Dopo la tragedia di Pisacane a Sapri, il mito di un Meridione pronto alla rivoluzione si invertì: riprendendo stereotipi che datano dalla fine del Settecento, i meridionali furono descritti come inaffidabili, indisciplinati, violenti, impulsivi e corrotti.
Nel Mezzogiorno il passatismo e la superstizione incrociavano la violenza del brigantaggio. Si attinse così ad una tradizione che aveva presentato il Mezzogiorno come un mondo esotico e antropologicamente diverso, e che in parte era stata originata dalla letteratura di viaggio di autori stranieri che avevano visto nell’Italia la quintessenza del paese meridionale.
Il dibattito su come reprimere il brigantaggio segnò, dunque, un momento fondamentale, in quanto si tentò di costruire una pena sul base antropologica più che per specifici reati commessi.
Gli anni del dibattito sulle leggi per reprimere il brigantaggio furono un momento importante, in quanto si immaginò una pena speciale in relazione non al reato che si doveva sanzionare, bensì ai caratteri antropologici del reo. I politici che costruirono un discorso del genere non si avvidero della portata notevole dal punto di vista della teoria giuridica, ma di fatto anticiparono alcuni elementi del dibattito suscitato più tardi dalla Scuola positiva del diritto penale.
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