Si riaffacciano, ammesso che siano mai scomparse, “questione morale” e “questione democratica”.
Le vicende giudiziarie di Bari e Torino, con le loro ricadute politiche sulla alleanza tra Pd e Cinquestelle, come altri episodi di corruzione che spuntano qua e là nel Paese, o, peggio, fenomeni di infiltrazione mafiosa che inquinano apparati amministrativi negli enti locali impongono una riflessione approfondita.
Per quanto ci riguarda siamo garantisti e, come tali, non ci lasciamo trascinare nel ginepraio delle polemiche che la cronaca di questi giorni offre, mettendo in risalto la ineffabile inadeguatezza di un certo ceto politico ad affrontare la questione alla radice, ponendosi interrogativi scomodi, sfuggendo alla pur necessaria autocritica.
Volendo affrontare i nodi della “questione morale” e della “questione democratica”, a nostro avviso, bisogna avere il coraggio di prendere di petto il problema cruciale della corruzione politica, la cui genesi non è casuale. Ma è collegata ad una serie di fattori che vanno indagati con rigore.
I partiti, innanzitutto.
Alcuni politologi si sono soffermati a considerare la partitocrazia come terreno fertile per la diffusione della mala pianta della corruzione. Secondo questa diagnosi, a generare illegalità e immoralità sistemiche sarebbe proprio l’invadenza dei partiti nella sfera pubblica, il loro appropriarsi dell’amministrazione al fine di drenare risorse utili a sostenere un ceto politico ed il relativo apparato per far fronte ai costi crescenti della competizione elettorale e politica.
Ma se, in passato, il termine partitocrazia, inteso come degenerazione del partitismo, aveva un senso e una sua effettiva incidenza, dal momento che esistevano i partiti massa, espressione di ideologie ben definite e radicate nella coscienza collettiva, ora è lecito dubitare che quello italiano sia un sistema partitocratico nel senso originario del termine, anche se è indubbio che sia un tipo di party-government.
Il modello partitocratico si fondava sull’esistenza di partiti organizzati, strutturati, dotati di regole di selezione interne, ciclicamente chiamati ad eleggere segretari, presidenti e quadri dirigenti, le cui decisioni scaturivano da serrati confronti tra correnti di pensiero nei comitati centrali, nelle direzioni, negli esecutivi. Luoghi, questi ultimi, dove si accedeva dopo percorsi formativi non agevoli e dopo aver dimostrato sul campo ben chiare competenze.
Erano, quei partiti, vocati, per loro natura e per rigorosa disciplina interna, a dirigere dall’esterno le istituzioni, orientandole verso la realizzazione dei processi riformatori, ispirati da visioni e progettualità sedimentate nel solco di culture ben definite. Niente a vedere con il modello attuale dei partiti. Con la loro struttura oligarchica. Né tanto più con la personalizzazione della politica, incardinata nella leadership del capo.
Per quanto nella prima Repubblica, come ora d’altro canto, non fosse mai stata presa in considerazione la norma costituzionale del riconoscimento giuridico dei partiti, una certa democrazia interna veniva bene o male assicurata. Insomma, i partiti, svolgevano un ruolo strategico verso lo Stato, supportandolo e rafforzandolo.
Quando, invece, la funzione di orientamento e di supporto è venuta meno, assumendo un ruolo egemonico, invasivo e di spoliazione dello Stato, il partitismo è degenerato in partitocrazia. Con i disastri che conosciamo in termini di corruzione, di conflitti interistituzionali tra magistratura e politica, di perdita di peso e di valenza della politica. Con il Potere che è trasmigrato altrove, in altri ambiti: economico-finanziari, giudiziari, burocratici.
Sotto l’incalzare delle nuove tecnologie, nel volgere impetuoso di un’epoca di radicali cambiamenti, scandita da formule inedite di configurazione dei poteri, da paradigmi del tutto nuovi cui ancorare letture aggiornate del quadro sociale, dello stesso vivere collettivo, degli enormi mutamenti intervenuti nei processi produttivi, degli effetti della globalizzazione, i partiti sono rimasti fermi, inerti, in piena afasia.
Nessuna reazione. Nessun tentativo di portarsi al passo con i tempi. Si sono destrutturati, sviliti.
Il modello di partito oggi prevalente ha caratteristiche diametralmente opposte. E’ disarticolato, scarsamente organizzato. Contano i capetti locali, le fazioni. Soprattutto nel livello locale, laddove non esiste un argine forte e ben collaudato, si annida il tarlo della corruzione. E’ lì che è più facile tessere la rete degli interessi diffusi, degli scambi verticali. Una rete che tocca politici, burocrazie, forze economiche, poteri finanziari.
Ed è lì che il mercato del voto assume le forme più deleterie e disgustose dello scambio.
Quanto più il sistema è depoliticizzato, tanto più alto è il rischio che l’azione corruttiva trovi spazi di infiltrazione. La riduzione dei partiti a meri strumenti elettorali provoca squilibri evidenti tra la possibilità di riconoscere militanza, merito, partecipazione, competenza, appartenenza e l’affanno di garantire carriere e posizioni di privilegio cui destinare sempre maggiori risorse.
Va da sé che per combattere questo fenomeno, non è sufficiente adottare codici etici, per quanto importanti essi siano, ed essere rigorosi nell’espellere tempestivamente chi si macchia di simili reati. Questo è il minimo.
Occorre muoversi con decisione lungo la strada della rigenerazione dei partiti, di una convinta e proficua azione di riforma che ridia senso alla politica e ruolo alla cultura, al movimento delle idee su cui solamente può fondarsi un sistema di valori, una dottrina, uno stile, un insieme di comportamenti moralmente ed eticamente ineccepibili.
Si tratta, a nostro avviso, dell’unica via per poter attrarre partecipazione e ampliare l’area dove pescare competenze e professionalità nitide.
Questo, è ovvio, vale per tutti, a destra come a sinistra. Ma c’è da dire che, ascoltando le reazioni di alcuni esponenti del Pd dopo le vicende di Bari e Torino, c’è da rimanere basiti.
Siamo alle solite. La presunzione di una superiorità morale è un complesso dal quale la sinistra non riesce ad emendarsi. Eppure, non ci vuole molto a capire che il voto di scambio, corollario indecente della corruzione, è un disvalore talmente forte e pregnante da incidere sulla stessa democrazia, oltre che sulla politica e sull’economia.
E’ un male assoluto. Un elemento corrosivo. E’ lo specchio di una idea radicata di malcostume.
Inquina e falsifica le regole. E’ un pugno nell’occhio delle persone perbene, dei cittadini onesti.
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