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Paolo Ludovici

Premierato, scelta definitiva o passaggio intermedio verso la repubblica presidenziale?


L'instabilità atavica dei nostri Governi è chiaramente figlia del nostro impianto costituzionale, che ci ha consegnato una Repubblica Parlamentare, tanto valida e qualificata dal punto di vista istituzionale e della sovranità popolare, quanto affaticata e soffocata dalla liturgia della politica applicata, che ne ha impedito di fatto il corretto esercizio democratico.

68 i governi che si sono succeduti dall’avvento della Repubblica ad oggi, con una durata media davvero molto bassa (1 anno e 10 mesi circa), un tempo davvero inconsistente per consentire a chiunque di procedere con una azione amministrativa coerente ed incisiva, nel rispetto dei programmi presentati al corpo elettorale.

Nessun gabinetto di governo infatti, neppure i più qualificati, e dire che ce ne sono stati vari nella pur giovane storia Repubblicana, ha davvero potuto agire in profondità, segnando e orientando la vita della Nazione, in una direzione piuttosto che nell’altra.

Cosa ricordiamo infatti dei lasciti importanti dei Governi passati? 

La riforma agraria del 1950 varata dal Governo de Gasperi, il piano casa firmato da Amintore Fanfani e avviato negli stessi anni, la riforma del lavoro con la Legge 300/70 a firma Gino Giugni e conosciuta con il nome di “Statuto dei Lavoratori”, cos’altro ancora di veramente significativo? poco, molto poco, non a caso il Paese sta vivacchiando la sua esistenza, condannato a galleggiare senza rotta nelle acque paludose del mondo globalizzato.

Le condizioni date del periodo bellico, con una Monarchia deludente e con un Re anche meno che mediocre, con un Paese immiserito da una guerra che non era in condizioni di combattere, oltre che lacerato dalla contrapposizione ideologica tra fascismo e nascente antifascismo, con un popolo ormai disabituato all’esercizio della vita democratica, perché soggiogato dai bagliori di una dittatura che si era saputa imporre senza spargere sangue, giustificavano la nascita di una Repubblica Parlamentare,  ove nessuno in pratica fosse assegnatario di un vero potere  di indirizzo e governo reale della Nazione, stante il sofisticato impianto dei “pesi e contrappesi” previsto dal dettato normativo, che imponevano sempre il controllo e l’avallo dei vari Organi Costituzionali in capo a qualunque iniziativa o decisione assunta da parte dell’esecutivo.

I Costituenti ebbero perfino il timore e l’accortezza di non semplificare troppo il percorso legislativo, istituendo non a caso due Camere perfettamente paritarie, chiamate ognuna di esse a confermare e legittimare con il proprio voto l’iniziativa legislativa assunta dall’altra, condividendo quindi alla virgola il medesimo testo di legge senza modifica alcuna, il “bicameralismo perfetto”. Un sistema legislativo alquanto complesso il nostro, due Camere perfettamente paritetiche, Senato e Camera dei Deputati, composte allora da parlamentari di diversa età, quaranta anni la soglia minima per i Senatori, venticinque anni per i Deputati, eletti al tempo da un corpo elettorale di diversa età anagrafica, venticinque anni compiuti per votare il Senato, la maggiore età invece, quindi prima ventuno poi diciotto anni, per votare i rappresentati alla Camera dei Deputati.

Oggi le cose sono leggermente diverse, i maggiorenni hanno acquistato il diritto di voto anche per la camera alta, il Senato, mentre i Senatori eletti dovranno avere compiuto almeno venticinque anni, a differenza dei Deputati che potranno averne anche solo diciotto.

Si è comunque dovuti arrivare al 2022 per arrivare a questo aggiustamento anagrafico degli elettori e degli eletti, che, diciamocelo, non è certo una rivoluzione istituzionale.

Se è vero che le cose cambiano nel corso degli anni, è anche vero che occorre sapersi adeguare ai mutamenti intervenuti nel tempo, anche a livello di costume sociale, per evitare di essere soggiogati dagli eventi e non essere più in grado di orientarli fruttuosamente, in ausilio alle necessità collettive, che sono poi lo scopo unico dell’azione politica.

Il modello della globalità planetaria, prima commerciale ma poi anche sociale, ci ha ormai completamente fagocitati. Per non rimanerne inesorabilmente schiacciati, occorre sapere reagire velocemente, cosa che non riesci a fare con un impianto normativo datato, dove anche la sola licenza per andare a funghi richiede una serie di passaggi burocratici infiniti e tempistiche esageratamente lunghe.

Il Governo di un Paese moderno che vuole recitare un ruolo di rilievo nello scacchiere internazionale, seppure integrato nel modello Europeo, richiede capacità di azione e scelte rapide, non può rimanere soggiogato dalla liturgia soffocante di uno schema politico ai limiti della paralisi, dove anche quando hai intavolato un provvedimento di natura esecutiva, non lo vedi compiersi perché altri, in forma più o meno cavillosa, quantunque legittimati dall’ordinamento normativo pletorico che ci siamo dati, te lo smonta prima ancora che entri in esercizio.

Un Governo nasce per governare, legittimato a farlo dalla suprema Sovranità Popolare che incarna.

Se non riesce a farlo, o peggio, se gli viene impedito di farlo dietro lo scudo di una presupposta legittimità politica di pura contrapposizione ideologica, quello non è più un Governo e la Sovranità Popolare che lo ha investito del ruolo, viene derubricata a mera comparsa inattiva del processo democratico. Financo banale dirlo, ma in democrazia è il corpo elettorale a decidere, secondo regola democratica di maggioranza.  Il Governo che il popolo si è dato ha il dovere, non solo il diritto, di portare a compimento la volontà popolare, in ossequio al mandato che ha ricevuto. Nessuno può arrogarsi il diritto di sentirsi più giusto ed equo della scelta popolare, quasi a volere tracciare un livello diretto di superiorità cognitiva rispetto ad essa, autolegittimandosi a contrastare il cammino intrapreso dai rappresentanti che il popolo si è dato, perché quello sì che sarebbe un atteggiamento sovversivo, antipopolare e dittatoriale.

Senza Popolo non c’è Nazione, senza Popolo non c’è Governo, senza Popolo non c’è vita democratica.

Surrogati al Popolo, legittimati ad agire in sua vece, non ne esistono, perché nel caso costoro si chiamerebbero dittatori, individui orientati ad agire in nome di una auto investitura suprema, desiderosi di imporre agli altri le proprie scelte, tanto egocentrici da pensare di possedere le chiavi della verità assoluta, così arroganti da agire in barba ai comuni mortali, relegati a sudditi inferiori e soggiogati alla leva distorta del potere rubato.

Oggi, dopo decenni dal varo della Repubblica Parlamentare, siamo più che sufficientemente maturi ed attrezzati per guardare oltre, senza avere più timore di consegnare la chiavi del potere a persona eletta, perché quella è l’investitura suprema e sovrana della scelta popolare, cui nessuno ha titolo ad opporsi.

Personalmente chi scrive e questo da sempre, ritiene che la Repubblica Presidenziale sia la scelta istituzionale più confacente alle esigenze di un Paese moderno.

Un Presidente eletto a suffragio universale, con una durata nella carica di quattro anni, che nomini il capo del Governo a sua responsabilità diretta, con un Parlamento investito della funzione legislativa e di controllo verso l’operato del Presidente eletto.

A pensarci, le due più antiche Democrazie Repubblicane compiute della storia è così che funzionano, Francia e Stati uniti d’ America.

Certo, un modello istituzionale così concepito, presupporrebbe un radicale riassetto della nostra Costituzione, ipotesi improponibile allo stato, visto il perdurante clima da pozzi avvelenati che ancora pervade il Paese.

La pace vera con la nostra storia non l’abbiamo ancora fatta, nonostante il tempo trascorso.

Una parte del territorio è rimasta fuori dai confini nazionali, mi riferisco a quella terra d’Istria così vilipesa e martoriata, da imporci il giorno della vergogna nazionale, prima ancora che quello del ricordo che ricorre proprio in questi giorni, per averla colpevolmente dimenticata e abbandonata al suo destino. In queste circostanze il “Premierato diretto” è un surrogato di riforma, ma è forse la sola scelta al momento percorribile e sulla quale si può prefigurare una ipotesi organizzativa accettabile con un buon margine di riuscita.

Diversamente si riaprirebbero i conflitti interni mai sopiti, con la paura incombente dell’uomo forte in campo.

Neanche se a noi Italiani giovasse poi così tanto mantenere l’uomo debole in cattedra.



 

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