A voler apparire un po’ eccentrici e stringendo al massimo il diaframma sulla storia dell’arte e sul soggetto del “ritratto”, viene facile rilevare come la rappresentazione della figura umana in pittura sia presente fin dai primordi della storia.
Ab initio, non si può che fare ricorso alla cultura e- gizia: qui le prime rappresentazioni di faraoni e loro accoliti, in forma di bassorilievo o di scultura ma anche di pittura, tradiscono il senso di sacralità dal quale sono avvolti e vibrano nell’alea dell’immortalità a cui sono destinati.
In Grecia e Roma, gli dei scendono in terra assumendo fattezze umane benché ancora idealizzate: eroi mitologici e olimpionici da un lato e perlopiù imperatori dall’altro appaiono realizzati, in marmo e in bronzo, ma anche , in scene plebee, in pittura (Creta e Pompei).
Il Medioevo, cessate la fama e la leggenda di imperatori ed eroi e non apparendo ancora sulla scena della storia altri personaggi di simil fatta, in arte segna il declino del ritratto e assurge a tempo riservato alla rappresentazione sacra di personaggi religiosi.
Dapprima la nascita dei Comuni, almeno in Italia, e quindi il fiorire di famiglie nobiliari occupano l’età rinascimentale e artisti quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo s’ingegnano nel conferire ai ritratti dei loro soggetti il carattere della somiglianza fisica e il carisma della personalità.
Nell’età moderna (XVI-XVIII secolo) il corso dell’arte ritrattistica è andato evolvendosi fino a configurare il ritratto come un genere artistico autonomo: l’exploit della Lisa del Giocondo fa metaforicamente vibrare le botteghe e gli studi degli artisti più titolati.
La somiglianza del soggetto e l’espressione della loro personalità, ritenendosi come conquiste ovvie e acquisite, non bastano più e in tralice si sprigiona la maestria dell’artista.
Ne è una prova il Ritratto di Francesco I di Valois di Tiziano (1530): non s’era ancora mai visto alcunché di simile: la sfarzosa vivacità dei colori, coniugata allo stile pittorico unico dell’artista di Pieve di Cadore, fanno di questo dipinto l’effige certo di un re ma anche la maestà e la potenza dell’istituzione monarchica.
Nei due secoli successivi (XIX-XX), dopo i languori del Romanticismo espressi in ritratti dominati dall’esal-tazione dell’individualità e della sensibilità del soggetto (soprattutto femminile), si assiste ad una rivoluzione vera e propria della ritrattistica per la sopravvenuta invenzione della fotografia. Il tempo dell’arte pittorica non sarà poi tanto clemente con questo nuovo medium.
Di lì a poco, infatti, e quasi a rivincita e sfida della dignità impareggiabile dell’artista contro il nuovo medium, si assiste ad una vera e propria destrutturazione della figura umana.
Il fautore di tanto “scandalo” non può che essere individuato in Pablo Picasso, l’artefice di Les Demoiselles d’Avignon (1907), che, sia per l’innominabile “ambientazione” del dipinto (un bordello) sia per le signorine ivi ritratte, non proprio di specchiata moralità, fa prorompere un boom ancora più fragoroso di quello provocato dalla Monna Lisa.
Nonostante, però, tanti “colpi di pennello” tirati in questo tempo alla figurazione ritrattistica accademica (le provocazioni di Duchamp, l’impeto surrealistico di Dalì, i tratti misteriosi e ambigui di Francis Bacon, le foto-pitture di Gerhard Richter, le provocazioni ironiche di Cindy Sherman), il ritratto, figurativamente accettabile, “resiste” sia nel Novecento che nel secolo successivo.
Lo si può vedere in Boccioni (Autoritratto, 1911), Modigliani (Ritratto di Paul Guillaume, 1916), De Chirico (Autoritratto con testa di Minerva, 1927), Chuck Close (Ritratto di uomo, 1995), John Currin (Ritratto di donna, 2000), Jenny Saville (Ritratto di una donna, 2013).
Un “ritratto a parte”, si fa per dire, in questo contesto, merita però il britannico Lucian Freud (1922-2011). La ritrattistica, sia nella singola figura, che in quella di gruppo, domina tutta la sua arte.
Una pittura forte e senza sconti: tutto il suo lavoro pare essere stato speso nella raffigurazione, più realistica che mai, dell’uomo contemporaneo.
Alla stregua dell’arte egizia che scolpì il modello d’uomo nei lineamenti di figure destinate all’aldilà o dell’arte greco-romana che non lesinò fattezze di semi-dei a eroi e imperatori, o del Rinascimento che elevò la bellezza del ritratto ad altezze mai viste e che mai sarebbero state viste o, ancora, dell’arte moderna che precipitò il ritratto nel declivio della destrutturazione, Freud “stampa” in immagini di personaggi, sorpresi anche nella loro intimità, l’emblema, come si è detto, della contemporaneità.
Le rughe profonde che solcano il viso dei suoi autoritratti paiono corrispondere alle crepe che si sono aperte nel suo tempo (esperienza del nazismo) e in quello presente (le guerre in tante parti del mondo).
L’analogia può apparire alquanto “tirata”, ma non sono gli artisti che presagiscono il futuro interrogando, a loro modo, il presente?
La “denuncia” di Freud è pero presentata a tutto tondo.
Non bastano le rughe. Nei suoi nudi una corporeità tumida, dalla carne, se non tumefatta, pesante e spesso cascante, allontana a distanze astrali l’ideale del bello che aveva ispirato e sostenuto tanta ritrattistica passata.
Il quadro, insomma, è completo: il ritratto secondo Freud si fa sintomaticamente simbolo della condizione umana. Sarà per la familiarità genica di Freud con il nonno Sigmund, che la mano dell’artista appalesa una sorprendente capacità introspettiva fino a svelare del soggetto tratti di evidente vulnerabilità, testimoniata tra l’altro, spesso, dalla sua cruda e cadente nudità.
Tutta l’umanità, in questi casi, appare annichilita nella sua irrecuperabile fragilità. Si può sperare però che nell’artista britannico urgesse soprattutto l’intento di dare un’immagine reale alla verità, a quella del corpo per esempio, senza celarne le imperfezioni; e alla verità delle espressioni “disegnate” con estro psicanalitico sui volti delle figure ritratte, che non riescono a nascondere la profondità dell’animo umano.
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