Libri a cura di Silvano Moffa
Martin Wolf è considerato tra i migliori giornalisti finanziari in circolazione. Nel suo recente poderoso volume sulla crisi del capitalismo offre un saggio della sua profonda conoscenza dei mali che attanagliano l’Occidente, non senza fare ammenda di qualche radicata convinzione che, alla luce di un’analisi a tratti finanche spietata, si è rivelata fallace, costringendolo, in alcuni casi, a ricredersi.
La tesi di fondo del libro, scrive nella prefazione, è “una reazione alla nuova, preoccupante èra che viviamo”: se osserviamo attentamente quanto sta succedendo nelle nostre economie e nei nostri regimi politici, dobbiamo riconoscere che serve un cambiamento sostanziale perché i valori fondanti dell’Occidente di libertà e democrazia sopravvivano.
Ma sarebbe sbagliato cercare di ricreare una società dal nulla, come se la storia non avesse importanza. Come scrisse Edmund Burke nelle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, la società è “un’unione non solo fra i viventi, ma fra questi, quanti sono defunti e quanti ancora debbono nascere”.
Il cambiamento è indispensabile, a livello sia nazionale sia internazionale, ma deve basarsi su ciò che esiste già. La buona salute delle nostre società dipende da un equilibrio delicato tra sfera economica e sfera politica, dimensione individuale e dimensione collettiva, ambito nazionale e ambito mondiale. Ora quest’equilibrio si è rotto. L’economia ha destabilizzato la politica, e viceversa. Non siamo più in grado di coniugare il funzionamento dell’economia di mercato con la stabilità della democrazia liberale.
La conseguenza di questa rottura mina le stesse basi della democrazia e sgretola il rapporto di fiducia tra cittadini ed élite. Ovviamente, la necessità di riformare il rapporto tra politica democratica ed economia di mercato non scaturisce esclusivamente dalle tensioni interne, per quanto forti.
A renderlo più urgente è l’affermarsi dell’autoritarismo in tutto il mondo e soprattutto l’evidente successo del capitalismo dispotico della Cina.
E’ nei fallimenti dell’economia, secondo Wolf, che bisogna rintracciare le cause della crescente sfiducia, del rancore e della insoddisfazione che attanaglia gran parte delle popolazioni a reddito alto. In fondo le persone si aspettano che l’economia produca un crescente stato di benessere.
Quando questo manca, gli effetti sono quelli indicati. Dice Wolf: “Nei paesi a reddito alto, molti puntano il dito contro il capitalismo globale degli ultimi trenta o quarant’anni, che ha generato non ricchezza e progresso costante, ma enormi diseguaglianze, posti di lavoro senza prospettive e instabilità macroeconomia”.
Insomma, se trent’anni fa trionfavano, oggi la democrazia liberale e il capitalismo globale hanno perso legittimità. Non è un problema da poco, perché parliamo dei sistemi operativi della politica e dell’economia occidentali.
Ma cos’è che ha dato origine a questi cambiamenti? In primis, lo svuotamento delle classi medie, “quel gruppo cui già Aristotele, quasi 2500 anni fa, attribuiva un ruolo cardine nella democrazia costituzionale”.
L’economia di metà Novecento nei paesi a reddito alto – con schiere di lavoratori industriali sindacalizzati, per la stragrande maggioranza uomini, con un impiego abbastanza sicuro e ben pagato – era il prodotto di una fase specifica dello sviluppo economico, rafforzata dalla politica del pieno impiego del secondo dopoguerra.
Quel modello sociale e culturale è scomparso insieme alla sua base economica.
“Tutto ha avuto inizio – sostiene Wolf – con un lungo periodo segnato da inasprimento delle diseguaglianze, crescita debole dei redditi reali per molte persone nelle parti medie e basse della distribuzione del reddito, scarsa mobilità sociale nei paesi con un livello di disuguaglianza piuttosto alto, deindustrializzazione, calo della partecipazione alla forza lavoro degli uomini dai 25 ai 55 anni, crescita ficca della produttività, indebitamento crescente delle famiglie e notevoli incrementi della percentuale di nati all’estero sul totale della popolazione”.
Poi è arrivata una crisi finanziaria imprevista, che ha comportato in extremis il salvataggio del sistema finanziario, una stretta di credito per le famiglie, il vistoso calo del Pil pro capite rispetto ai trend storici, un lungo periodo di stagnazione e caduta dei redditi reali per le famiglie, un quadro reso ancor più pesante dall’austerità fiscale.
A scombussolare ulteriormente uno senario già complesso, sono sopraggiunte la pandemia e la guerra in Ucraina. A fronte di questa crisi profonda e globale, Wolf, citando Karl Popper, propone l’elogio dell’ingegneria sociale gradualista. In poche parole, dice, abbiamo bisogno di riforme radicali e coraggiose dell’economia capitalistica, per preservarne gli aspetti positivi e porre rimedio a quelli negativi, esattamente come negli anni Trenta e Quaranta del Novecento.
Le riforme necessarie oggi, però, non sono identiche a quelle che servivano allora, perché il contesto e i problemi sono cambiati, in particolare per via della crisi climatica. I fondamentali, comunque, sono gli stessi.
Dobbiamo rafforzare i legami economici della cittadinanza e al contempo consolidare la cooperazione internazionale. Questo tipo di ingegneria sociale non può fare a meno delle competenze, anche se le competenze da sole non bastano. Occorre la partecipazione delle persone nel formulare gli obiettivi e nell’accettare i risultati.
I tecnici servono, ma non possono essere lasciati ad agire in piena autonomia. Solo la leadership politica può imprimere un cambio di direzione. Per rinnovare la democrazia l’economista punta, principalmente, su due fattori: il patriottismo e la virtù civica.
E qui la critica di Wolf alla “sinistra bramina” affonda il colpo. “La sinistra bramina – scrive – ha commesso un grosso errore disdegnando i sentimenti patriottici, e in particolare il patriottismo della classe lavoratrice.
Per la grande maggioranza della gente comune, la cittadinanza è fonte di orgoglio, sicurezza e identità.
Attle, ministro laburista, era un patriota; e lo era anche Ernest Bevin, il ministro più importante del suo governo. Scagliandosi contro tutto ciò che il paese ha fatto e rappresentato nella storia, certa sinistra contemporanea non fa che distruggere la stessa democrazia. Come pure, per rinnovare la cittadinanza democratica è indispensabile impartire alle persone, soprattutto ai giovani, un’educazione etica, anche su cos’è la democrazia e cosa significa, come funziona e su quali responsabilità hanno i cittadini. Decisa è anche la posizione che l’autore esprime in materia di immigrazione.
Il grande interrogativo, dice, non è se controllarla ma come.
Lo Stato democratico appartiene ai cittadini, che sono legati da vincoli di lealtà e fiducia reciproca.
Giocoforza, quindi, chi debba entrare a far parte della comunità e a quali condizioni è una questione tanto economia quanto politica. Quindi è giusto controllare l’immigrazione e l’acquisizione della cittadinanza.
“L’immigrazione può portare enormi benefici, ma bisogna controllarla. E’ indispensabile trovare un compromesso accettabile in materia, che contemperi il doveroso aiuto umanitario con i vantaggi economici e l’armonia sociale. Raggiungerlo sarà difficile, ma non si può fare altrimenti”.
In conclusione, il capitalismo democratico, l’ordine globale e l’ambiente, secondo l’autore del corposo saggio, hanno in comune la fragilità. Le minacce alla sopravvivenza della democrazia liberale sono di natura interna: derivano dalle risposte inefficaci della politica e delle politiche pubbliche ai mutamenti economici e tecnologici.
Pur con tutti i suoi difetti, comunque, vale la pena difendere la democrazia dai pericoli che l’assillano.
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