Europa matrigna. Speravamo che, dopo la terribile stagione dell’Austerity con tutte le conseguenze che ha creato sulle condizioni economiche e sociali di molti Stati europei ci fosse una riforma radicale del Patto di Stabilità; che almeno le risorse destinate agli investimenti pubblici in particolari settori, come per esempio nel campo dell’economia verde, fossero tenute fuori dal computo delle spese, in un capitolo a parte, visto che riguardano interessi comuni; che le esperienze accumulate nel periodo della pandemia e le difficoltà indotte dalla perdurante guerra in Ucraina spingessero verso forme di intervento più flessibili; che la clausola del golden rule, ossia il particolare criterio che avrebbe consentito di gestire meglio il vincolo di bilancio facendo leva sulla politica fiscale, fosse finalmente inserita nel pacchetto delle riforme.
Insomma, speravamo di vedere finalmente decollare un’Europa diversa, che lasciasse qualche margine di operatività alle politiche dei singoli Stati, soprattutto negli investimenti e nell’azione di rientro dal debito. Invece, tutto questo è mancato.
E’ come se le lancette dell’orologio fossero tornate indietro, al tempo del rigorismo.
Eppure, molte cose, nel frattempo, sono cambiate.
Peraltro, si ha netta l’impressione che la non accettazione delle richieste del governo italiano siano una ritorsione per la non ancora avvenuta ratifica del Mes, ossia del meccanismo di salvataggio europeo, sulle cui modalità di applicazione permangono dubbi e molte riserve sono state sollevate da più parti. Non è un caso che tale meccanismo, che opera su richiesta dei singoli Stati, non sia stato finora utilizzato. Chiederne la riforma, agli occhi dei tecnocrati di Bruxelles, suona, evidentemente, come un’impudenza, una sorta di sgarbo istituzionale.
Intendiamoci, qui non si tratta di alimentare scorciatoie e furbizie. Si tratta, al contrario, di evitare ingessature e condizioni capestro che soffochino la crescita e comprimano lo sviluppo.
Tanto per essere più chiari, con la linea dura del “nuovo” Patto di Stabilità il governo italiano rischia di essere costretto a manovre di correzione dei conti da 14-15 miliardi l’anno. Cifre, queste ultime, fuoriuscite, con improvvida e sospetta tempestività, guarda caso, proprio dagli ambienti tecnici di Bruxelles. Questo significherebbe rendere quasi impossibile finanziare la riforma fiscale, il taglio del cuneo fiscale per i dipendenti, gli aiuti alle famiglie. Un bel pezzo di Finanziaria, per intenderci.
Tutte cose che l’esecutivo, quasi certamente, cercherà di evitare non cedendo alle pressanti richieste europee. Ci sono due aspetti che possono aiutare in tal senso. Primo: la fiducia dei mercati sulle politiche fin qui adottate dal governo. Secondo: la credibilità internazionale che la leader Giorgia Meloni si è conquistata in un breve lasso di tempo.
Sul primo punto, la situazione va monitorata costantemente dal Tesoro e tenuta sotto controllo. Ci sono, infatti, elementi discordanti. Dopo aver apprezzato la tenuta dei conti pubblici in termini di contenimento del debito (un macigno per l’Italia), i mercati potrebbero essere influenzati da alcuni strani segnali. Non sfugge la particolare coincidenza con cui la Goldman Sachs ha “consigliato” di vendere i Btp italiani per comprare i Bonos spagnoli, mentre l’agenzia di rating Moody’s ha lasciato intendere che i titoli italiani potrebbero essere declassati.
Senza contare che il quadro complessivo tende ad appesantirsi con l’aumento dei tassi imposto dalla Bce. E’ evidente che l’aumento dei tassi pesa molto di più su chi ha il debito più alto. E la Germania non è tra questi. La Germania, appunto. Qui il discorso si farebbe lungo e assumerebbe altre pieghe. La riforma dettata dalla Commissione europea, ma che deve essere ora sottoposta al vaglio e all’approvazione del Consiglio e del Parlamento europeo, pende ancora una volta a favore di Berlino e dei suoi alleati del Nord. Se è vero che la Commissione non ha accolto la richiesta tedesca di ridurre di un punto percentuale ogni anno il rapporto debito/Pil, è pur vero che, se, da una parte, permane la possibilità di negoziazione bilaterale dei piani nazionali che prevedono la riduzione del debito, dall’altro lato, si fissa l’obbligo di aggiustamento di bilancio dello 0,5% del Pil ogni anno, fino a quando il deficit si attesta al di sopra del 3 per cento del prodotto interno.
Detto fuori dai denti: la Commissione europea con una mano dà e con l’altra toglie. Nel computo tra i due pesi, però, la bilancia favorisce sempre una parte, la Germania e i Paesi del Nord.
Al di là di tutto questo – e non è poco – c’è un dato che la Commissione europea avrebbe dovuto valutare con accortezza al fine di varare una riforma del Patto di Stabilità degna di questo nome. E’ il dato offerto dallo scenario politico complessivo in cui l’Unione è chiamata a muoversi. Uno scenario che appare in movimento e fortemente segnato dalle politiche connesse al Pnrr, agli indirizzi dell’Unione Bancaria e alle reazioni da adottare rispetto alle decisioni americane di arginare l’inflazione con l’Inflation Reduction Act.
Da come è stato stipulato il documento si ricava netta l’impressione che non ci sia una visione organica e complessiva dell’Europa sulle politiche da adottare.
Che manchi una strategia. Che tutto si muova per compartimenti stagni, con un tecnicismo e un rigore ragionieristico che nulla hanno in comune con una pianificazione correttamente stagliata sugli sforzi che gli Stati stanno compiendo, ognuno con il rispettivo calibro di problemi.
Insomma, ci vorrebbe una diversa e più concreta coerenza istituzionale oltre ad una visione ampia e articolata del ruolo geopolitico dell’Europa a fronte dei cambiamenti intervenuti. Si stanno modificando gerarchie, ruoli e pesi nello scacchiere dove agiscono nuovi e vecchi attori internazionali.
Tra la Cina e l’India che galoppano imponendo strategie commerciali invasive e condizionanti, gli Usa che tentennano tra la rivendicazione di una antica supremazia e la preoccupazione di essere scavalcati ad Oriente, l’Africa che torna ad essere meta di nuove forme di colonizzazione, le inedite formule attrattive dei mercati alimentate dai Paesi del Brics e dall’asse del North American Union tra Canada Mexico e United States, l’Europa è in una morsa e rischia di soccombere.
Lo spirito europeo appare spento.
Tra un anno si tornerà a votare per il Parlamento europeo. Sarà quella l’occasione per ridare vigore, forza, nuova linfa e strategie coerenti e produttive al Vecchio Continente? Ce lo auguriamo. Nel frattempo, però, bisogna almeno limitare i danni.
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