La strategia espansiva del gigante asiatico. Dalla Via della Seta all'Africa.
Occidente complice e vittima della egemonia di Pechino. Fallita finora ogni azione di contenimento.
Nel 2019, alla vigilia del 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e la Cina, la nostra Nazione (primo Paese del G7 ad aderire ufficialmente) ha firmato il memorandum d’intesa alla Belt & Road Initiative che sancisce il partenariato italo-cinese per la Via della Seta.
Molti politici ed economisti hanno celebrato l’evento come una svolta epocale, foriera di immensi vantaggi per il nostro Paese ma guardando i fatti e il comportamento del nostro partner orientale c’è molto poco da rallegrarsi.
In realtà la Repubblica Popolare Cinese ancora doveva nascere, quando John Maynard Keynes esponeva la sua dottrina economica, altrimenti avrebbe bollato l’attuale comportamento del gigante asiatico come quello di una setta, che scientemente non rispetta le regole di ortodossia nei rapporti internazionali, che tutti gli altri paese si sono date per le relazioni istituzionali e per il commercio, esercita spesso ricatti e fa pesare sempre il proprio squilibrio dimensionale.
I seguaci di questa setta, ovunque nel mondo, sono una comunità molto chiusa, riservata, schiva e discreta, grande lavoratrice, rifugge dai matrimoni misti e non sempre brilla per onestà, trasparenza e nell’ammettere le proprie responsabilità, anche di fronte all’evidenza, ma opera sempre sotto l’occhio vigile del governo centrale, che assiste, coordina e guida i rapporti commerciali ed industriali.
Non voglio evocare il silenzio delle autorità cinesi che ha contrassegnato le prime fasi della diffusione del Covid in Cina, perché troppo banale e arcinoto, ma come è possibile immaginare di avere rapporti commerciali rispettosi ed onesti con un partner che è tiranno persino con i propri concittadini e punisce con la morte o il carcere a vita il solo dissenso?
Dal dopoguerra in poi, Mao Zedong ed i suoi successori, si sono dedicati a strutturare la nazione, pur così grande e così diversa al suo interno, concentrandosi ad imporre il pensiero unico del comunismo cinese con la rivoluzione culturale (e con milioni di morti) ma la vera grande rivoluzione è stata quella economica portata avanti dall’inizio degli anni ’80 (Deng Xiaoping), che ha cambiato profondamente il ruolo della nazione nel mondo.
Forte di un mercato interno che poteva sostenere produzioni di larghissima scala e di qualunque prodotto, nell’ultimo ventennio del secolo scorso la Cina ha dato un’impronta formidabile al processo produttivo industriale ed agricolo, percorrendo lo stesso cammino del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan, ma senza mai compiere una reale transizione politica, laddove, invece, la mutazione economica e tecnologica ha coinciso con un profondo cambiamento politico e istituzionale.
Dopo lo storico sorpasso del Giappone nel 2009, che ha portato il colosso asiatico ad essere la seconda potenza industriale mondiale, nove anni dopo la Cina ha sorpassato anche gli USA portandosi al primo posto.
I capisaldi della trasformazione, guidata da una classe illuminata, dispotica e capace di annientare qualsiasi opposizione, sono stati i seguenti:
Industrializzazione forzata
Inizialmente basata su tecnologie mature e sul basso costo della propria manodopera (sradicando la popolazione dalle zone rurali), è stata sviluppata tutta l’industria manifatturiera a forte incidenza di lavoro umano (tessile, meccanica ed elettronica di base), trasformando così il paese in un esportatore di prodotti a basso prezzo capace di fornire quasi un quinto del mercato mondiale.
Il salto tecnologico
In seguito è avvenuto un scatto di qualità verso l’industria tecnologicamente più avanzata e complessa, che ha portato alla formazione dei grandi comparti industriali; in pratica città intere dedicate ad uno specifico settore produttivo, meccanica di precisione, abbigliamento, tessile, agroalimentare, elettronico, etc.
Distretti tecnologici dove in media lavorano 150.000-300.000 addetti, tutti sulla stessa filiera produttiva, completamente integrata (cfr. Shenzhen, Shantou, Zhuhai e Xiamen).
Per accelerare il processo, oltre a pianificazioni decennali e tanti investimenti, l’acquisizione del know how è stata forzata al massimo seguendo due percorsi: il modo “gratuito” e quello fraudolento.
Attraverso l’attrazione di imprenditori esteri a delocalizzare in Cina, sfruttando il fortissimo gap del costo della mano d’opera rispetto ad altri paesi più industrializzati, è stata costruita una robusta base produttiva, che mirava ai grandi volumi, con le tecnologie più moderne, per consolidare la potenza industriale a livello mondiale, creando soprattutto esperienza anche nella contrattazione con l’estero.
La conquista del mondo
La conquista di posizioni particolarmente forti sul mercato internazionale è stata la strategia della terza fase della Cina; attraverso finanziamenti internazionali per realizzare infrastrutture si è fatta pagare con le concessioni minerarie, soprattutto in Africa, per detenere preziose risorse per il futuro.
Gli esempi di ruoli monopolistici nel modo sono tanti; basterà citare la produzione dei pannelli solari a base di silicio e l’accaparramento delle terre rare per microchip, il mercato dei dispositivi di protezione individuale. Non è un caso che i più grandi produttori di mascherine sanitarie in tessuto soffiato, all’avvio della pandemia, fossero cinesi.
La Cina si è preparata sistematicamente ad invadere il globo con i propri prodotti.
Il più grande progetto infrastrutturale della Via della Seta (cfr. Belt & Road Initiative) prevede un’espansione portuale gigantesca.
Dopo aver consolidato la propria presenza, militare e non, in diversi porti marittimi strategici internazionali (cfr. Gibuti, Gwadar in Pakistan, Hambantota in Sri Lanka, Malè nelle Maldive, Haifa e Ashdod in Israele, Ambarli in Turchia e Bagamoyo in Tanzania), ha “aggredito” le maggiori aziende portuali europee, entrando con la Cisco in modo massiccio nelle partecipazioni societarie in Belgio, Francia, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna.
Guardando in controluce questa poderosa azione politica ed economica, però, non si possono non notare le pecche profonde del comportamento internazionale dei Cinesi.
Dato che nulla si muove in Cina senza il controllo governativo le conclusioni, mai ammesse dalle istituzioni occidentali per timore di ritorsioni diplomatiche, sono fin troppo chiare.
Gioverà in proposito riportare alcuni elementi caratteristici nei comportamenti della Cina - a titolo meramente indicativo tra le migliaia di eventi verificatisi - per dimostrare che gli episodi negativi non sono ricollegabili ad azioni della malavita, ad industriali di pochi scrupoli o imprenditori truffaldini, come avviene spesso nel nostro pianeta e per tanti casi, ma è il potere che si comporta in un determinato modo e ogni cinese, ovunque, si muove sempre come la longa manus dell’autorità centrale, coerente sia nella mentalità che nel modus operandi, seguendo una sorta di strategia precisa, imposta dalle autorità (cfr. la vicenda di Jack Ma di Alibaba o quella del miliardario utopista Sun Dawu), ma sostenuta e coperta anche con l’omertà dal proprio governo.
Il Dumping mondiale
Il mercato del consumo, accecato dalla bulimia del basso prezzo, pur di comprare a costi ridotti ha tollerato e persino ignorato che i lavoratori cinesi non avevano coperture previdenziali, che le fabbriche cinesi non sostenevano il peso dei costi della sicurezza e soprattutto inquinavano senza freni. Ne è derivato che molte industrie del modo occidentale non hanno retto alla sproporzionata concorrenza cinese sul primo prezzo ed hanno chiuso per l’impossibilità di competere (basterà ricordare per tutti il dramma delle fonderie di Taranto, dove per produrre acciaio a costo confrontabile con i prezzi cinesi, si avvelena l’ambiente) praticamente aprendo ancora di più i propri mercati alla penetrazione cinese.
L’inquinamento senza ritegno
L’aspetto dell’ecologia è veramente drammatico: quattro anni dopo la farsa dell’accordo di Parigi del 2015, pieno di dichiarazioni di buone intenzioni, è emerso che nel 2019 la Cina ha emesso più gas serra di tutti i Paesi industrializzati messi insieme (il 27% a livello mondiale seguita dagli USA all’11%). L’anno dopo le autorità cinesi (lo stesso Xi Jinping) ha promesso che il picco delle emissioni sarà raggiunto entro il 2030 per poi raggiungere il carbon neutral nel 2060 (!). Come dire: continuiamo come treni nel nostra programmazione e poi si vedrà.
L’aggressione alle risorse naturali In quasi tutti i continenti del globo, la Cina è coinvolta in una serie vorticosa di progetti di estrazione di risorse, acquisto di energetici e prodotti agricoli e produzioni infrastrutturali (ferrovie, strade, dighe, miniere) che stanno producendo danni senza precedenti agli ecosistemi e alla biodiversità. Dopo aver fatto scomparire gli squali da tutti i mari vicini solo per prelevarne le pinne, ghiottoneria della cucina tipica, la Cina, che rappresenta circa un terzo del consumo di pesce del mondo, ha allestito la più grande flotta di barche da pesca al mondo (si parla di 17.000 navi ma si sospettano almeno 100.000 imbarcazioni, di cui non si sa bene la proprietà e non è nota con certezza nemmeno l’attività svolta, spesso risultata illegale), che con attività intensiva solcano il globo in lungo e in largo, comprese le acque al largo dell’Africa Occidentale e dell’America Latina, prelevando quantità incredibili di risorse ittiche con reti lunghe fino a 100 chilometri. Poi, per improbabili risultati della medicina tradizionale, i cinesi sono stati, da sempre, i più grandi sostenitori dei bracconieri mondiali africani ed asiatici, comprando sul mercato clandestino denti, artigli, corni e scaglie di animali protetti o in via d’estinzione (come tigri, leopardi e alcune rare specie di piccoli felidi, orsi tibetani, rinoceronti, cervi, scimmie e pangolini). Ovunque si perseguono i cacciatori di frodo ma mai i committenti per lo più operatori del mercato cinese.
Falsificazione delle monete - Nel gennaio 2011, la Banca centrale tedesca scopre che 29 tonnellate di monete contraffatte sono state scambiate con 6 milioni di euro, portando all’arresto di quattro cittadini cinesi. Nel 2013 presso la dogana dell'aeroporto internazionale Zaventem di Bruxelles viene sequestrato un enorme quantitativo (diverse tonnellate) di monete da 1 e 2 euro contraffatte provenienti dalla Cina. Nel 2014 viene sequestrato un container pieno di euro falsi di altissima qualità, made in Cina, mentre è in arrivo al porto di Napoli; contiene 306.000 monete da uno e due euro, per un importo pari a 556.000 euro.
Contraffazione dei prodotti
Nel 2018 a Napoli sono sequestrati due capannoni gestiti da due commercianti cinesi con quasi due milioni di prodotti contraffatti di materiale elettrico, cancelleria, giocattoli e strumenti per la didattica infantile. Nel 2019 a Catania viene sequestrato un container contenente beni vietati alla commercializzazione in Italia e nell'Unione Europea (giocattoli, prodotti di cartoleria, lacche per capelli, colle per insetti e topi, silicone in tubetti) perché non rispondenti alla normativa comunitaria e pericolosi per la salute dei consumatori. Di recente l’Agenzia delle Dogane fa sapere che nel triennio 2017-2020 la Guardia di Finanza ha sequestrato 81,4 milioni di articoli illegali, di questi 36,5 milioni sono cinesi; si tratta di articoli contraffatti come giocattoli, borse, occhiali da sole, bigiotteria, orologi di marca.
Protezione diplomatica dei connazionali all’estero
Nel 2007 la rivolta cinese a Milano, per una multa dei vigili urbani ad una commerciante, è messa a tacere dopo i disordini con l’intervento del governo cinese che chiede rispetto per i propri concittadini! Non ci sono più stati episodi simili…. Perché? Sono tutti commercianti onesti e corretti o le verifiche amministrative hanno preferito evitare certe attività? Nel 2013 un incendio nella fabbrica tessile di Prato, porta alla morte diversi lavoratori, che lavoravano in un capannone dormitorio; i funerali di sei delle sette vittime sono celebrati solo otto mesi dopo perché i familiari non potevano organizzarli per mancanza di soldi. I due titolari cinesi dell'azienda, condannati anche dalla Cassazione, sono tornati in Cina facendo perdere le tracce; sono condannati solo i proprietari italiani del capannone. Dopo quei tragici fatti, la logica avrebbe imposto controlli con cadenze piuttosto ravvicinate nelle aziende. Ma ecco che dalla Cina si fa osservare che controlli rivolti esclusivamente a ditte di proprietari di origini cinesi sarebbero stati in contrasto con l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e che tutte le ditte avrebbero dovuto essere sottoposte a controlli, in modo da evitare che si venerassero situazioni discriminatorie. Risultato: in questo modo le fabbriche cinesi (oltre 6.000), indubbio volano economico e industriale, sono come la terra di nessuno dove e difficile conoscere cosa avviene di giorno e di notte per evitare complicazioni internazionali.
Cosa non si doveva fare e cosa si sta facendo
L’Occidente ha sempre guardato la Cina dal punto di vista dell’interesse immediato e del guadagno veloce, sottovalutando o ignorando il disegno strategico che muove i rapporti con l’estero del gigante asiatico e soprattutto gli effetti a lungo termine delle politiche commerciali ed industriali. I governi hanno sempre ragionato con la logica del mandato elettorale, cioè sui 4-5 anni. Molti imprenditori, anche italiani, pensando di scoprire il Bengodi in Cina in passato hanno spostato le proprie produzioni, riducendo i costi produttivi ad un terzo rispetto a quelli del paese d’origine; è stato un errore di folle miopia: nessuno si è preoccupato che questo meccanismo serviva al rapido trasferimento delle tecnologie e del know how (in modo pressoché gratuito e sicuramente meno costoso della ricerca) e che di lì a pochi anni la Cina avrebbe fatto chiudere le aziende partner, esportando direttamente i prodotti cinesi a prezzi con cui era impossibile fare concorrenza. Sull’altro versante le cronache sono piene di episodi dove i cinesi (Huawei in testa) cercavano di saccheggiare informazioni e tecnologie in modo scorretto, sempre difesi dalla patria che smentiva categoricamente anche le evidenze più lampanti (cfr. il caso del German Research Center di Monaco di Baviera per l’orchestrator dei network Cisco Nso nel 2019 oppure quello dei clienti KPN ini Olanda nel 2020), confermando in tal modo lo stretto legame tra azienda e governo.
Di errori ne sono stati fatti molti dall’Occidente, continuamente piegato su interessi particolari e di breve periodo, senza vedere che il gigante asiatico avrebbe raggiunto una dimensione con cui era impossibile competere e soprattutto senza notare l’inserimento nel sistema economico ed industriale delle ditte cinesi, sempre silenzioso e discreto, nonostante i volumi di penetrazione nei territori divenissero elevatissimi, in una promiscuità - mai chiarita e decifrabile - tra export e produzione locale degli immigrati.
L’Occidente oltre ad aver sottovalutato questa invasione crescente dei prodotti cinesi, di fronte a casi eclatanti per molto ha rinunciato persino alle misure daziarie perché la Cina minacciava ritorsioni verso i prodotti dell’Europa o degli USA, dimenticando che nella sostanza le intimidazioni (che hanno sempre avuto l’effetto desiderato) avrebbero corrisposto sempre in perdite più pesanti per i cinesi nello scambio bilaterale. Infatti una delle regole d’oro dei cinesi è avere la bilancia commerciale con gli altri stati sempre attiva (finalizzata all’importazione della valuta pregiata) per cui qualunque ritorsione commerciale penalizza più la Cina degli altri.
A riprova del sistematico disavanzo positivo che la Cina cerca con i partner commerciali, oltre ai tanti dati ufficiali dei bilanci inport/export, c’è il mondo del pallone: il governo è intervenuto persino sulle squadre di calcio della massima divisione, che importando giocatori e allenatori dall’Europa creavano uno sbilancio economico a suo sfavore: da qualche anno il club che ha due giocatori stranieri non potrà superare i tre milioni di euro, per cui vedremo il rientro di molti campioni.
Che si può fare per non essere fagocitati dalla Cina ed invasi da prodotti industriali, tessili ed agricoli orientali? L’Unione Europea ha cercato di fronteggiare il fenomeno della concorrenza sleale da diversi anni, stabilendo dazi anche verso il dumping sociale e ambientale (per le produzioni che pagano poco la mano d’opera o inquinano).
Ad esempio, considerato che la Cina produce l'80% della produzione mondiale di aglio, per contrastare le esportazioni cinesi verso l'Europa, è stato imposto il dazio oltre limite di 13 milioni di kg annuali, con importi in misura crescente sulle quantità eccedenti. In alcuni campi specifici, invece, sono stati fissati pacchetti di misure antidumping variabili (cfr. il settore dell’acciaio con dazi dal 13,8% al 16% e quello dell’alluminio dal 35% al 48%, in funzione del livello di collaborazione delle industrie), che tuttavia funzionano su denunce delle singole aziende europee.
Purtroppo molte misure daziarie vengono superate dal transhipment (cfr. lo scandalo Honeygate che vide dal 2002 al 2008 migliaia di tonnellate di miele cinese venduto negli USA come proveniente da Russia, India, Indonesia, Malaysia, Mongolia, Filippine, Corea del Sud, Taiwan e Tailandia) o, paradossalmente sono indebolite proprio da imprenditori nostrani, che vivono di triangolazioni con la Cina (cfr. il casi di tutti prodotti cinesi come la passata “italiana” di pomodoro, l’acciaio giunto come “vietnamita”), anche se è accaduto che alcuni inasprimenti delle misure anticontraffazione fossero osteggiati a livello normativo da industriali di paesi occidentali, che vedevano un pericolo nell’aumento dei controlli e delle verifiche su qualità ed origine dei prodotti.
Il futuro economico, pertanto, per nazioni come l’Italia che non vogliono divenire solo consumatori di prodotti esteri, è ipotizzabile solamente attraverso un miglioramento sistematico della qualità dei prodotti, il tracciamento rigido della filiera produttiva (cfr. il caso della pasta che era indicata come prodotta “con grano italiano, europeo o non europeo”, praticamente mondiale!) e una severità rilevante, con leggi e norme, verso tutti i prodotti contraffatti o che non rispettano le norme di sicurezza o ambientali oppure che contengono sostanze nocive, pericolose o non dichiarate.
Una maggiore severità (soprattutto controlli sistematici, pesanti sanzioni e meccanismi di garanzia preventivi su prodotti ed operatori) potrebbe ancora difenderci dalle minacce di colonizzazione commerciale e migliorerebbe anche l’immagine del made in Italy anche in altri settori, adeguatamente difesi; ma ne saremo capaci?
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