La sterminata bibliografia dell'Imperatore si arricchisce di nuovi contributi.
Nel mezzo dell’Atlantico in burrasca, nei pressi di Madera, sulla rotta per Sant’Elena, Napoleone confessa al suo amico Las Cases che ne raccoglie le confidenze: “La memoria di quel che ho compiuto sarà la mia dinastia”. E intanto guarda il mare e non smetterà più di farlo da quel luglio 1815 fino al “fatale” 5 maggio 1821.
Sulle onde che sbattono contro lo scoglio che lo ospita per volontà dei suoi vincitori-aguzzini, primi tra tutti gli inglesi e poi i “parenti-serpenti” della Casa d’Asburgo, non fa che rivedere la cavalcata della sua vita e, dunque, dell’immaginaria dinastia che aveva creato e sperato di mantenere in una Europa che troppo somigliava ad una nazione, la “sua” nazione. Ma quella dinastia, ben prima della caduta, si era dissolta e di essa rimanevano ombre vaganti sull’immenso mare dove il solitario esule scrutava, non senza inquietudine, i segni della gloria passata e le persone che avevano accompagnato la sua inimitabile avventura umana, militare, politica, diplomatica. Non è improbabile che Napoleone abbia passato in rassegna in cinque anni sopratutto chi gli é stato vicino, a cominciare dai familiari sollevati dalla polvere còrsa ed elevati a ranghi di re, principi e principesse, nobilitati a vario titolo nel suo nome per rappresentare la sua potenza.
Nessuno di loro ha nutrito la “nobiltà della sconfitta”, ognuno ha cercato di trovare un riparo più o meno confortevole rinnegando il congiunto sconfitto che forse, consapevole di un destino tanto crudele, approssimandosi il suo quarantaseiesimo compleanno, ricorda forse la folgorante sintesi che nello splendore della sua potenza aveva confidato ai plaudenti cortigiani il 12 dicembre 1804: “La morte non è niente, ma vivere sconfitti e senza gloria significa morire ogni giorno”. Ha la percezione della solitudine sulla sommità dell’Europa soggiogata.
Ma non immagina che i più lontani saranno i parenti più prossimi, i fratelli, le sorelle, gli acquisiti e la pletora di marescialli divenuti sovrani di qualche cosa. Noi che due secoli dopo la sua fine terrena, indaghiamo ancora sul mistero della grandezza che Napoleone si è portato nella tomba su quel lugubre scoglio lontano dalla civiltà, il solo non-luogo dove poteva seppellire se stesso e far vivere paradossalmente la sua memoria, ci chiediamo come sia potuto accadere che nessuno di quanti hanno vissuto e si sono arricchiti in potere e denaro abbia tentato qualcosa per opporsi ad un destino tanto crudele.
Una lezione di disumanità e di viltà. Da parte di tutti, tranne che di sua madre, come documenta una straordinaria biografia intima, ma anche pubblica appena uscita. Napoleone e le sue donne, fra potere e sentimento, viene narrato nel sontuoso, scintillante e affascinate volume Al cuore dell’impero (Marsilio, pp.405, € 18,00) da Alessandra Necci, una delle migliori e più convincenti biografe contemporanee di personaggi storici, con una predilezione per i francesi tra rivoluzione, impero e restaurazione. Magnifiche le ricostruzioni dei protagonisti e, soprattutto delle protagoniste, che ruotarono intorno a Napoleone e ne condizionarono spesso la vita privata e quella pubblica. Per stile, passione e spirito indagatore quest’ultimo volume ricorda Il prigioniero degli Asburgo. Storia di Napoleone II re di Roma, sempre pubblicato da Marsilio nel 2011.
Ma la differenza sta nella coralità del racconto della Necci che riesce, pur attenendosi filologicamente ai fatti, a non perdere il filo del discorso innestando le vicende delle donne di Napoleone nello scenario vastissimo degli eventi politici, militari e diplomatici. Sicché viene fuori una storia pubblica e privata che lascia il lettore ammirato per la capacità dell’autrice di non smarrire neppure per un istante il complicato “resoconto” intrecciandolo con lo spirito dell’epoca nel quale si assisero per un paio di decenni le donne di Napoleone.
Letizia Ramolino, la madre, giganteggia per qualità morali ed affettività, pur non tacendo un suo intenso amore ai margini di un matrimonio complesso per non dire scombinato. Ma lei è certamente, nella cerchia familiare, quella che più ha amato Napoleone. Di un amore sincero e disinteressato, spinto fino a prove durissime nel tempo della miseria quando la sola consolazione era quella di intravedere il giovane figlio farsi largo nella vita, fin dai tempi del collegio militare, per salire tutti i gradini del potere. Molti anni dopo la caduta di Bonaparte, dirà: “Tutti mi chiamavano la madre più felice dell’universo, mentre la mia vita altro non era che una serie di dolori e martiri”.
Tutt’altro che esagerata se si considera il nido di vipere da lei consapevolmente covato, tra figli ambiziosi e figlie avide e dedite ad amori seriali, oltre a veder l’imperatore circondato da traditori e famelici approfittatori. Eppure ha digerito per amore di Napoleone scelte che non condivideva come il matrimonio e l’incoronazione imperiale di Giuseppina Beauharnais, singolare etera dedita a facili costumi, e per quanto fosse stata “la donna che ho più amato”, secondo Napoleone, grazie probabilmente ai suoi celeberrimi artifizi erotici ed alla spregiudicatezza nel tessere trame nelle quali lo stesso innamorato venne coinvolto, si può dire che l’arte dell’intrigo era la sua dote migliore al punto di combinare matrimoni politici, sistemare sua figlia Ortensia con un Bonaparte dal quale sarebbe nato Napoleone III, avvicinarsi ed allontanarsi dalle cognate a seconda delle convenienze, frequentare i letti “giusti” prima e dopo il matrimonio con Napoleone al punto che questi si disamorò progressivamente fino a divorziare per avere finalmente un figlio. Dalla padella alla brace. La Necci racconta per filo e per segno le tappe di un non-amore, o di un amore di Stato, che portarono nel talamo napoleonico la figlia di Francesco I d’Asburgo, la nipote della grande Maria Teresa, la giovanissima Maria Luisa anche lei dedita ad amori extraconiugali e incline a tessere trame politiche a discapito di suo marito. Un’austriaca in missione tra le file nemiche, si potrebbe dire. Che dopo Waterloo guadagna la sua patria, si mette a disposizione del suo casato, consegna come prigioniero suo figlio, il re di Roma, a Francesco I, le viene assegnato il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, si consola tra le braccia di Neipperg, vero governante del piccolo reame, e si dimentica dell’Aiglon nel modo più cinico che si possa immaginare. Una delle figure più squallide della saga napoleonica che tuttavia non manca di insinuarsi tra i pensieri dell’esule insieme con il piccolo re per il quale Napoleone si strugge di nostalgia e dolore.
Il meglio, per così dire, seguendo la narrazione e valutando i ritratti della Necci, lo danno le tre sorelle dell’imperatore. Napoleone, al di là delle innumerevoli rievocazioni, è una presenza perenne. Nel bene e nel male. Lo si può considerare come si vuole, ma non se ne può fare a meno. Si esalta il condottiero, il generale, lo statista l’imperatore o si denigrano i metodi di governo e le idee illuministiche che nella fase dell’ascesa al potere dispiegava a piene mani, comunque lo si guardi la sua indiscutibile grandezza risalta oggi soprattutto come fautore di un “imperialismo europeo” che dovrebbe e potrebbe fornire spunti di riflessione tutt’altro che irrilevanti a chi si occupa del Vecchio Continente e del suo stato tutt’altro che solido.
A due secoli dalla sua morte, dunque, Bonaparte continua a destare interesse. E la bibliografia già sterminata si arricchisce di nuovi contributi. In aggiunta le riedizioni di libri, che ne rievocano la stupefacente parabola, ripropongono punti di vista dimenticati.
È il caso della biografia monumentale di Hilaire Belloc, Napoleone condottiero e politico europeo riproposta da Oaks (pp.471, € 24) e Storia di Napoleone dell’incomparabile François-René de Chateaubriand che Iduna rimanda in libreria per il godimento dei lettori del visconte bretone (pp.469, € 24).
Poche opere come quella di Belloc (La Celle Saint-Cloud 1870- Guildford 1953) lumeggiano l’Europa di Napoleone in una visione assolutamente moderna e precorritrice, nonostante le convulsioni continentali che la sua ascesa provocò. “Aveva l’animo di un combattente e non si lasciò intimidire”, annota Belloc, individuando i caratteri del condottiere oltre che dell’uomo di Stato. E aggiunge che il nostro destino sarebbe stato migliore se non avesse “inciampato” a Waterloo. Nella sua prefazione, Paolo Gulisano sottolinea come Belloc parli con rammarico del tentativo napoleonico di unificare l’Europa “restituendole la pace (a costo di tante battaglie) e riprendendo la tradizione augustea: un progetto che se fosse riuscito, avrebbe cambiato l’intera storia e la cultura di un continente condannato ai moti nazionalisti dell’Ottocento e al massacro della Prima Guerra Mondiale”.
Che Belloc fosse un europeista convinto si evince dalle prime parole del saggio su Bonaparte: “Il compito che oggi ci attende è la ricostituzione dell’unità europea. Non una federazione mondiale (un’idea meccanica, senza base storica, né organica), ma la ricostruzione di un’Europa unita è la massima impresa che ci attende, il cui esito, positivo o negativo, deciderà se dovremo vivere o morire”. Considerazioni attualissime che meritano di essere meditate e che rimandano alla visione napoleonica che fu per l’imperatore un sogno che il destino non gli permise di realizzare. Chateaubriand (Saint-Malo 4 settembre 1768 - Parigi 4 luglio 1848), scrisse a lungo ed intensamente di Napoleone nella sua opera maggiore Memorie d’Oltretomba dal quale è tratto il volume che ne tratteggia la storia con incursioni politiche nel mondo borbonico, a cui si avvicinò dopo la caduta dell'imperatore e racconta la “pace” che fece con lui dopo la sua morte , riconoscendo la grandezza di colui che aveva chiamato il devastatore, elogiandolo sia come amministratore che come legislatore.
Chateaubriand può essere considerato il testimone più attendibile dei mutamenti che hanno connotato la nascita dell’epoca che chiamiamo moderna. Egli ha visto con i propri occhi, e spesso da protagonista ogni cosa: una monarchia diventare repubblica; la repubblica trasformarsi in impero; l’assolutismo cedere il passo alla democrazia; la democrazia farsi terrore; il terrore cedere il posto all’ordine nuovo di un militare venuto dal nulla e poi la restaurazione e le illusioni finire con una “monarchia repubblicana”. L’intreccio di eventi, non esente da purissima poesia nel vissuto e nell’immaginario, ha formato il capolavoro di Chateaubriand che non è racchiuso soltanto nella sua opera maggiore, ma nelle migliaia di pagine e di articoli giornalistici pubblicati specialmente nel suo quotidiano “Le Conservateur”, fondato nel 1818. Una sterminata “lettura” storico-politica e morale che non può ancora oggi lasciare indifferenti di fronte ad eventi tanto dissimili che viviamo rispetto all’epoca post-rivoluzionaria, eppur così vicini o per i convulsi intrecci che la modernità, dipanandosi, ha portato in eredità fino a noi. Insomma, leggere Chateaubriand è una chiave per comprendere il nostro tempo e la “democrazia illiberale” - descritta in altri termini - da un grande conservatore.
La sua profondità intellettuale spiega l’elogio di Charles Augustin de Saint-Beuve: «Noi siamo tuoi figli! Le tue idee, le tue passioni, i tuoi sogni non sono più solo le nostre, ma tu ci hai indicato la strada e seguiamo le tue tracce». Anche Marc Fumaroli, nel suo sontuoso saggio dedicato all’aristocrazia e al Regime, ha seguito le sue tracce. E ci invita con la “riscoperta” propostaci, certamente la più eloquente letterariamente considerandola, a «una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d’Oltretomba e del campo magnetico entro il quale si è formata. Esso presenta il panorama dei sentimenti, dei pensieri, delle passioni di un grande essere che fu anche un grande poeta, nato vent’anni prima del 1789 e morto nei giorni di tumulti e repressione cruenta del giugno 1848». Ovviamente comprendendovi anche Bonaparte, Fu perciò “navigatore tra due rive”, Chateaubriand, come testimone e protagonista di vicende contraddittorie che segnarono la storia della Francia e diedero il tono a quella dell’intera Europa.
Un tale “viaggiatore velato” viene accompagnato nella sua odissea ai quattro punti cardinali del “secolo delle rivoluzioni” da un “fedele” indagatore come Fumaroli che delinea così, per suo tramite, una stupefacente mappa dei conflitti tra modernità e antimodernità, tra illuminismo e anti-illuminismo, tra razionalismo e fede, tra un mondo che si lacera e si dissolve e uno nuovo che nasce all’insegna dell’eternità per poi scoprirsi precario e fragile. Ma che cosa sono le Memorie d’Oltretomba nella storia della letteratura e del pensiero europei le cui suggestioni arrivano fino a noi con il fardello di un annuncio che probabilmente non abbiamo ancora decifrato del tutto? Lasciamo dire a Fumaroli: «Sono il riepilogo di una vita che ha sperimentato l’impotenza della pa rola e dello scritto a governare gli spiriti, e di un “secolo di rivoluzioni” che ha inaugurato un’èra di instabilità permanente e di “marcia nelle tenebre”... Esse re- digono il documento più tetro dell’inanità umana a controllare il “progresso” sociale, morale, politico e tecnico di cui l’uomo moderno si è eletto a demiurgo.
Ma la loro poesia “assolutamente moderna”scatena la sua ironia, e un compiaciuto disprezzo, sull’esistente che si pone come la sola misura del“possibile” e contro gli uomini che si attribuiscono un dominio razionale su certe forze materiali che sfuggono loro di mano e li beffano».
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