Tra Qatargate, conferenze semi fallimentari in Egitto, fino a qualche settimana fa avremmo puntato pochissimo sul bilancio di questo finale di anno, che invece ha riservato all’ultimo novità importanti per tracciare la via da seguire nei prossimi mesi.
La prima arriva direttamente dalla California.
La segretaria del dipartimento statunitense all’energia Jennifer Granholm ha confermato che gli scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory sono finalmente riusciti a produrre energia tramite la fusione nucleare, tecnica che consente di ottenere un guadagno netto di energia, producendone più di quanta ne sia stata immessa in precedenza.
Notizia tra l’altro già anticipata sia dal Financial Times sia dal The Washington Post. Una scoperta sensazionale, che potrebbe rivoluzionare e dare una spinta molto forte al mondo dell’energia rinnovabile.
Si potrebbe ad esempio pensare finalmente al nucleare come mezzo di produzione di energia “pulita”, stabile e a zero emissioni (e senza scorie radioattive), utile per il settore dei trasporti ma anche per quello delle industrie pesanti.
Ma purtroppo non è tutto oro quel che luccica.
Nonostante i giganteschi passi in avanti dal punto di vista scientifico, bisogna frenare gli entusiasmi e procedere con cautela.
C’è infatti da sottolineare il fatto che si tratta di un progetto in fase assolutamente embrionale, seppur nelle sue potenzialità. Ma soprattutto, perché per apprezzarne i risultati tangibili probabilmente dovremmo attendere ancora decenni.
Nel frattempo, dovremmo continuare ad inquinare in maniera più responsabile. Non possiamo prescindere dalla spinta necessaria sulle rinnovabili tradizionali che, finalmente, stanno conquistando il loro ruolo nel mix energetico nazionale ed internazionale, in vista della completa decarbonizzazione. Ecco che allora, dopo il Consiglio Europeo in cui si è nuovamente ribadita l’importanza di rafforzare il coordinamento all’interno dell’Ue per la gestione degli stoccaggi del gas e del tema del riscaldamento in generale, lo scorso 18 dicembre è arrivata finalmente l’intesa delle istituzioni europee sulle emissioni.
Un accordo che dovrà determinare i connotati del nuovo mercato della CO2 dei ventisette Paesi membri dell’Ue, l’Emissions Trading System (Ets), il sistema che dal 2005 dà un prezzo alle emissioni di CO2. È un grande passo in avanti verso la Net Zero 2050.
Innanzitutto il mercato Ets non coprirà più soltanto il settore energetico e dell’industria, ma interesserà anche i trasporti via mare, oltre che il settore dei trasporti via gomma, il riscaldamento e in previsione anche gli inceneritori.
Ci sarà anche l’istituzione di un Fondo sociale per il clima di oltre 86 miliardi di euro, che partirà nel 2026 e di cui potranno usufruire tutti gli Stati membri Ue come misura di tutela in caso di aumenti del costo dell’energia.
Ci sarà la cosiddetta “Carbon tax” alle frontiere, cioè un sistema di tassazione previsto per poter tassare il prezzo della CO2 anche sulle importazioni, in modo tale da rendere più equo lo scambio di prodotti importati da Paesi in cui vigono politiche sul clima meno fiscali e proteggere in questo modo il mercato del lavoro europeo da eventuali delocalizzazioni delle imprese e conseguenti perdite di posti di lavoro.
Un punto a lungo dibattuto all’interno dell’Ue per quanto riguarda le sue tempistiche, e che infatti avrà entrata a regime in maniera graduale, nell’arco di tempo compreso tra il 2026 al 2034.
Decisioni importanti, che rischiano quasi di mettere in secondo piano l’ultima novità proveniente da Bruxelles che, in un momento di transizione energetica ed economica come questo, si rivela molto utile, tuttavia non totalmente efficace.
Dopo mesi e mesi di trattative a livello europeo, il 19 dicembre Bruxelles ha finalmente trovato l’accordo anche sul price cap, il tetto sul prezzo del gas, misura che era stata già proposta dall’ex Presidente Draghi. Con il solo voto prevedibilmente contrario dell’Ungheria – e l’astensione di Austria e Paesi Bassi, che seppur contrarie non hanno ostacolato l’approvazione della misura – il meccanismo di correzione del mercato energetico dovrebbe fissare definitivamente il tetto del prezzo a 180 euro/Mwh ed entrare in vigore a partire dal 15 febbraio.
Una notizia importante dal punto di vista politico, che ha mostrato in qualche modo una volontà congiunta a livello europeo di sbloccare lo stallo che si era creato negli ultimi mesi.
Tuttavia, viene da dire che forse è una misura che arriva con qualche mese di ritardo, rispetto alla necessità che avevamo nei mesi di agosto e settembre di garantirci un risparmio, anche se minimo. Oltretutto, come spiega Mariangela Pira per Sky Tg24, c’è da precisare che il price cap approvato rappresenta più che altro un meccanismo di correzione del mercato dell’energia, più che un tetto vero e proprio.
Infatti, affinché questo meccanismo scatti, dovranno al contempo avvenire due passaggi chiave necessari: il prezzo del gas nel mercato di Amsterdam di riferimento dovrà superare i 180 euro per almeno tre giorni lavorativi consecutivi – considerando che la media sul mercato annuale mobile è stata di circa 121 euro/Mwh - in più la differenza di questo prezzo al TTF e quello del GNL (gas naturale liquefatto) dovrà essere maggiore di 35 euro, sempre per tre giorni consecutivi.
In assenza di uno dei due, non entrerebbe in vigore.
Per di più, ricordiamo che la Commissione si è riservata il diritto di sospendere il meccanismo nel caso in cui dovessero non esserci più le condizioni. Insomma, un segnale politico molto forte, da cui però non si può tornare indietro, pena l’impossibilità di assicurarsi i rifornimenti necessari per l’inverno prossimo.
Intervenire sul mercato finanziario è una soluzione-tampone che seppur necessaria al momento ci farà guadagnare ben poco tempo se contemporaneamente non viene affiancata da una politica comune di avanguardia su rinnovabili e consumi più consapevoli, oltre che da una resa più fluida delle procedure burocratiche.
Questo è il momento di spingere sull’acceleratore, perché la posta in gioco oramai è troppo alta.
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