Nella giornata dello scorso 8 gennaio, a Brasilia, centinaia di sostenitori dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro hanno preso d’assalto i tre edifici governativi principali: il Congresso, il Parlamento e il Palacio do Planalto, la sede ufficiale della Presidenza della Repubblica. Hanno rotto vetrate, squarciato tele di alcune opere d’arte, ci sono stati scontri con la polizia, che è dovuta ricorrere ai gas lacrimogeni per respingere i riottosi. Centinaia di arresti per quello che si può considerare l’episodio più riconducibile a quello di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, a Washington DC.
L’attacco non è stato casuale e, col senno di poi, neanche troppo inaspettato. Già da alcune settimane, migliaia di sostenitori dell’oramai ex presidente Bolsonaro hanno iniziato a protestare nelle maggiori piazze della città contro l’insediamento di Luiz Inácio Lula de Silva. Mentre, il giorno prima dell’assalto, alcuni autobus pieni di sostenitori dell’ex presidente sono arrivati da tutto il Paese, lasciando in qualche modo presagire cosa sarebbe potuto accadere. Il governatore del distretto federale di Brasilia, Ibaneis Rocha, è stato infatti sospeso dalla carica per 90 giorni perché ritenuto responsabile del non intervento dei poliziotti. Per lo stesso motivo, è stato arrestato anche l’ex ministro della pubblica sicurezza nella capitale, Anderson Torres, che dopo aver preso l’incarico il primo gennaio scorso, dopo l’insediamento di Lula, ha cambiato i responsabili al suo interno e poi è partito per gli Stati Uniti.
È molto facile trovare dei punti di estrema vicinanza con quanto accaduto un paio di anni fa al Campidoglio americano. Prima di tutto, la ferocia dell’attacco. Fortunatamente, a differenza del 6 gennaio americano, le istituzioni governative erano vuote, e anche Bolsonaro stesso si trovava in Florida al momento dell’assalto.
In secondo luogo, il movente. Bolsonaro non ha mai veramente ammesso la sconfitta alle elezioni – sulla bio del social Twitter ancora non ha tolto la dicitura “Presidente da Républica do Brasil” - così come a suo tempo non fece Trump, alimentando in questo modo un clima di complottismo che si è insinuato sempre più insidiosamente nel tessuto sociale.
Certo, ci sono anche differenze rispetto all’episodio americano. Primo fra tutti il ruolo delle forze dell’ordine, che se a Capitol Hill non hanno potuto contenere la foga dei rivoltosi, a Brasilia sembra abbiano in qualche modo permesso e addirittura accompagnato la rivolta. Secondo, il ruolo di Bolsonaro stesso, ufficialmente dichiaratosi estraneo ai fatti e che ha addirittura condannato le modalità della rivolta. Terzo, il fatto che anche tutta la prima linea della coalizione bolsonarista abbia preso le distanze dai fatti dell’8 gennaio. Dichiarazioni che lasciano spazio al dovuto scetticismo, dal momento che è palese il fatto che ci siano stati finanziamenti ed aiuti alla base.
Infatti, il punto di congiunzione tra le due vicende si trova piuttosto ad un livello più cardinale, relativo all’eredità politica e sociale di quanto accaduto. Questo complottismo “sociale” – come lo definisce Maurizio Stefanini su Il Foglio – più che istituzionale, è insito oramai nel tessuto sociale brasiliano. I “bolsonaristi” (gergo utilizzato per i fan più fedeli all’ex presidente, che contano un numero vicino ai 54 milioni di persone) si raccolgono intorno a un sentimento sempre più evidente di frustrazione e delusione da una realtà che pensavano di poter rovesciare con Bolsonaro. È gente che non ha più fiducia nelle istituzioni, non si affida più ai canali di informazione tradizionali (altro evidente riferimento alla “Big Lie” americana), è convinta che le elezioni siano state in qualche modo falsate e che Lula non abbia in realtà vinto. D’altra parte, Bolsonaro sulla non affidabilità del sistema elettorale brasiliano aveva fatto uno dei punti cardine della sua campagna elettorale. Dopo le ultime elezioni si aspettavano una mossa, un colpo di stato da parte dell’ex presidente, che a conti fatti non c’è stato, e questo ha mandato ancora più in tilt il loro sistema. Bolsonaro ha di fatto caricato una bomba sociale: di colpo si sono ritrovati ancora più arrabbiati e smaniosi di trovare un nuovo leader che possa rappresentarli.
Intanto i responsabili dell’assalto sono stati identificati ed arrestati in dieci stati del Paese.
Così come sono state identificate le persone sospettate di aver avuto dei legami di tipo economico con gli organizzatori del tentato golpe, ad esempio finanziando direttamente il noleggio degli autobus utilizzati dagli estremisti. L’AGU (l’Avvocatura generale dell’Unione Brasiliana) ha identificato infatti più di cento aziende coinvolte, soprattutto provenienti dal settore agroalimentare.
Per questo motivo ha richiesto come primo lotto di azioni legali contro queste aziende il blocco dei beni in loro possesso, così come ha richiesto il blocco dei conti bancari intestati all’ex presidente, nonostante le sue recenti dichiarazioni.
Questo però per il neo presidente non è un traguardo, piuttosto un punto di partenza, e anche in salita. Il Brasile è diviso, e Lula dovrà fare i conti con la fiducia che dovrà riporre in quelle istituzioni, che già una volta non si sono mostrate leali.
Dovrà anche fare i conti col timore che buona parte dei brasiliani sia affetta oramai irreversibilmente dalla piaga del complottismo, come già avvenuto negli Stati Uniti. D’altronde, un editoriale delle scorse settimane sul quotidiano francese Le Monde riportava proprio questo. Se c’è una lezione che abbiamo imparato dai fatti di Washington è proprio quella di rispondere senza mezze misure a questi attacchi per frenare immediatamente l’”effetto farfalla” che al partito americano ha fatto giocare le elezioni di metà mandato e buona parte di credibilità.
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