La dimensione dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente si sta allargando.
Né sembra intravedersi una via d’uscita, una “exit strategy” che costringa le parti a trovare un’intesa, un compromesso su cui basare un decente equilibrio, almeno un primo “cessate il fuoco” per trasferire il confronto sul terreno diplomatico.
Di chiacchiere e di buoni propositi, finora, ne abbiamo sentiti tanti. Nulla di più. A dimostrazione della assoluta inadeguatezza dell’Onu nel fronteggiare le crisi internazionali e della inconsistenza delle diplomazie a cavare un ragno dal buco.
Su questo versante appare chiaro che nel delinearsi della nuova geopolitica, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, della fine della guerra fredda e, soprattutto, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, non si è trovato un rimedio, un punto di bilanciamento rispetto alle convulsioni che scuotono la nostra epoca. I conflitti degli ultimi anni stanno profondamente cambiando le strategie globali.
Un dato quest’ultimo che, per molti versi, ancora non appare del tutto assimilato da chi continua ad immaginare il mondo come fosse quello di una volta, incardinato nelle antiche categorie del pensiero, dell’economia, della stessa sicurezza militare. Al contrario, stanno cambiando le priorità.
Per quanto gli Stati Uniti esercitino ancora un ruolo imperiale di controllo, ci sono nuovi attori mondiali che reclamano e hanno ormai ottenuto un ruolo fondamentale nella politica mondiale.
Basti pensare alla Cina, alla stessa Russia, per non parlare dell’India, dell’Iran, della Turchia. Anche per questo, il multilateralismo, in tema di decisioni riguardanti la sicurezza e non solo, è diventato più una necessità che una scelta. Per dirla con Alessandro Vanoli (il cui recente volume sull’Invenzione dell’Occidente abbiamo recensito su queste pagine) “il sogno dell’era della globalizzazione di vedere scomparire progressivamente le frontiere si è rivelato un incubo: dall’invasione russa in Ucraina al recente conflitto tra Israele e Palestina, tutto parla di terre e di confini ancora insanguinati”.
Se non è affatto banale chiedersi cosa rimanga dell’Occidente, è non di meno utile comprendere che quel che rimane sono frammenti di una storia che sta evolvendo davanti ai nostri occhi.
La mancata definizione di un nuovo ordine mondiale, venute meno categorie e i saldi punti di riferimento del passato, richiederebbe ora e subito l’intervento risolutivo delle cancellerie delle grandi e medie potenze.
Una eccezionale mobilitazione di queste ultime per impedire la deflagrazione su larga scala dei conflitti.
Da tempo, Papa Francesco va ammonendo come siamo ormai in una condizione del tutto simile a una nuova Guerra Mondiale, sanguinosa e apocalittica, coinvolgente l’intera umanità, dove, alla fine, tra genocidi e stermini, non ci saranno vincitori.
Credere che il Consiglio di Sicurezza oppure il palazzo di vetro delle Nazioni Unite possano, allo stato attuale, essere le sedi di un proficuo confronto fra le parti in guerra, con la concreta e fondata ambizione di portare a casa un risultato proficuo, rischia di essere soltanto una mera illusione.
Intanto, cresce la sensazione che tutto sfugga dalle mani e che ci si incanali in un tunnel tumultuoso e senza vie di uscita, trascinati in una crisi più grande di noi. In più, l’imminenza di elezioni gravide di incertezza negli Stati Uniti e la marginalità dell’Europa acuita dalle sue divisioni, rendono il quadro ancor più fosco. Peraltro, viste le recenti ondivaghe “assunzioni di responsabilità” da parte dei leader di entrambi i continenti, è ben difficile che loro eventuali iniziative possano essere considerate affidabili.
La verità è che siamo nel mezzo di un tornante della storia in cui i governi democratici non sono mai stati così fragili e impotenti. Per dirla con lo storico Emmanuel Todd, l’Occidente è alle prese con la sua sconfitta. Sconfitta su vari fronti, a suo dire.
Da quello militare, che ha visto l’Europa infilarsi nel conflitto russo-ucraino, favorendolo e appoggiandolo in una condizione di appiattimento sulla Nato e sugli Stati Uniti, offrendo di conseguenza l’immagine di un “suicidio assistito”.
Come pure la dura risposta di Netanyahu al barbaro massacro operato il 7 ottobre dell’anno scorso dai terroristi di Hamas, con l’uccisione di un impressionante numero di civili e bambini, unita alla inaudita sparatoria contro la postazione dei caschi blu, insediata lungo il muro di frontiera libanese, perpetrata dai soldati israeliani a caccia di tunnel e armi lungo i sentieri di Hezbollah, non hanno fatto altro che favorire l’avvicinamento dell’intero mondo islamico alla Russia di Putin, mettendo in crisi la stessa fiducia verso Israele delle nazioni amiche di Tel Aviv.
Su quest’ultimo episodio, giustamente bollato dal nostro ministro della Difesa come un “crimine di guerra”, vale la pena ricordare che i caschi blu dell’Onu sono in Libano ininterrottamente dal 1978. Non si sono mossi da lì quando Israele ha invaso il Libano nel 1982 e neppure quando lo ha rifatto nel 2006. Sempre pronti, quei militari dell’Unifil, tra cui ci sono tanti italiani, a svolgere il ruolo di “peacekeeper”, sentinelle del confine tra i due paesi, pronti ad assistere i civili durante le occupazioni, sempre arbitri neutrali tra i due contendenti.
L’analisi di Todd è tranciante. Si spinge fino a individuare nel collasso morale e sociale il male profondo dell’Occidente. Il suo immergersi in una sorta di nichilismo dissolutore, nel quale prende il sopravvento la caduta dei valori legati alla concezione dello Stato-nazione, alla perdita del sentimento religioso unita al venir meno del sentimento comunitario, quel moto collettivo di appartenenza ad un destino comune.
Un nichilismo che sfocia, inevitabilmente, nel rifiuto della realtà, nell’accondiscendenza verso una violenza fine a se stessa, e, in ultima istanza, nel bisogno di autodistruggersi, togliendo spazio ad ogni forma di compromesso.
Intendiamoci, non tutto quel che sostiene Emmanuel Todd va preso come oro colato. L’analisi dello storico è, a tratti, fin troppo impietosa.
Nondimeno, fa riflettere. Apre uno squarcio di verità. Ci fa capire quanto sia stato delittuoso archiviare i valori propri della nostra civiltà, a partire dal concetto di sacro e da quello di sovranità; quanto sia stato dannoso troncare il rapporto tra élite e popolo e mendace la globalizzazione rispetto alle aspettative nutrite di un mondo migliore perché interconnesso, modellato nel mercatismo, nel consumismo, nell’edonismo. Fattore, allo stesso tempo, di sviluppo e di diverse e più marcate diseguaglianze.
L’unica novità, in questo quadro di incertezze, delusioni, sconfitte e declini, potrebbe venire da tutt’altro campo rispetto a quello occidentale. Dai protagonisti di quel mondo nuovo che avanza e che prende il nome di Brics, in origine Brasile, Russia, India, Cina, poi Sudafrica a cui si sono aggiunti Iran, Egitto, Etiopia, Emirati arabi uniti, nel summit di Kazan in Russia, di fine ottobre.
E’ presto per dire se quel summit, il primo del genere, potrà sortire effetti risolutivi sui conflitti in corso, in che termini e a quali condizioni.
Ma il fatto stesso che questi Paesi si incontrino, comincino a testare il terreno per sondare possibili intese, costruire alleanze strategiche, far sentire il peso della loro influenza sui conflitti apre nuovi scenari e riposiziona le forze in campo.
Dalla ridefinizione dei ruoli, dalla capacità di assumere decisioni ed esercitare influenze potrebbe scoccare una scintilla. E, magari, servire a scuotere l’Occidente dal suo torpore.
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