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Immagine del redattoreLivio Del Bianco

Economia sommersa e tracciabilità

Secondo i dati del MEF il fisco perde 42 miliardi di euro all'anno per il lavoro nero.

Circa l'8,8% del PIL nazionale nelle mani della criminalità organizzata. Per l'Erario un danno di 80 miliardi.

Il primo aspetto da affrontare è quello lessicale. Quando si dice economia sommersa si pensa subito al lavoro clandestino, costituito sostanzialmente dai lavoratori irregolari e delle badanti in nero, che sono stimati complessivamente in circa 3 milioni e 300 mila.

È bene saper che questo specifico segmento vale oltre 75 miliardi di euro di fatturato, ma è poco se lo si confronta con tutta l’attività criminosa del pizzo, della droga, della prostituzione, del contrabbando, etc. etc., che appartiene a pieno titolo all’economia sommersa e vale esattamente il doppio.

Infatti, secondo alcune fonti autorevoli tutta l’economia sommersa italiana è pari a 210 miliardi di euro (guarda caso vicino all’importo del recovery found), rappresentando il 12% del PIL italiano ma togliendo il cosiddetto lavoro in nero, la quota presidiata dalla criminalità è quasi 150 miliardi di euro cioè il 71% del volume complessivo, corrispondente a circa l’8,8% del PIL nazionale.

Secondo il Ministero dell'Economia, si calcola che il Fisco perda circa 42 miliardi di euro/anno sui lavoratori in nero, pari a circa il 40% dell’evasione d’imposta complessiva; se questo è vero sul fatturato della malavita la perdita d’entrate rasenterebbe gli 80 miliardi di euro!

Purtroppo, l’enfasi dei media e della politica si concentra principalmente sui circa 70 miliardi di euro dell’evasione fiscale di professionisti e commercianti, qualche volta - con più indulgenza - sul settore dei lavoratori “invisibili” quasi ritenuti un male necessario, ma trascura o parla poco della guerra da portare all’economia della criminalità, di gran lunga più vistosa e più pericolosa, sia fiscalmente che socialmente.

Perché questo? La risposta deriva dall’analisi dei dati.

Dal 2014 l’Unione Europea (Regolamento UE n.549/2013) ha concesso ai vari stati membri di calcolare all’interno del PIL gli introiti delle attività criminali. Questo, se ai fini della chiarezza e della comparabilità internazionale dà una giusta correzione al PIL ufficiale avvicinandolo al reale, in realtà fa venire i brividi. L’Italia, con molto pudore, ha cominciato nel 2009 a quantificare - attraverso l’ISTAT - la propria revisione dei risultati del prodotto interno lordo dell’economia non osservata nella misura dello 0,9% (pari a 15 miliardi) per arrivare nel 2018 all’11,9% pari a 211 miliardi di euro e proseguendo in crescita.

Si comprenderà quindi che tale performance ci porta di fronte ad un bivio assurdo: reprimere la criminalità vorrebbe dire agire per la riduzione del PIL! Di fatto, negli anni, il giro d’affari delle attività illegali è sempre cresciuto.

I dati della DIA sui sequestri dei beni alla malavita ci consente di avere una valutazione complessiva dell’economia sommersa molto verosimile. Infatti, per il Sole 24 Ore, la criminalità organizzata italiana, a fronte dei circa 150 miliardi di ricavi annui, avrebbe poco più di 35 miliardi di costi e utili per oltre 100 miliardi. Inoltre, il riciclo del denaro sporco in investimenti “ufficiali” interessa generalmente solo un 30-40% degli utili che la malavita consegue e la stessa operazione di trasformazione corrisponde a dimezzarne il valore; si comprende pertanto che i quasi 37 miliardi di euro aggrediti in meno di 30 anni danno la prova inconfutabile di una massa d’affari molto rilevante e, comprensibilmente, solo la punta dell’iceberg.

Se non fosse bastata la considerazione che combattere la criminalità fa abbassare il nostro PIL, ci pensano le relazioni della Commissione Antimafia a rassicurarci. Nei verbali dove si parla delle misure di contrasto ai fenomeni mafiosi, si stigmatizza la necessità di ampi interventi (mai fatti ancora n.d.r.) sul piano della repressione, prevenzione e rafforzamento della trasparenza, si deplorano le condizioni politiche, sociali ed economiche che favoriscono la genesi e la riproduzione delle mafie e si sottolinea la mancanza di iniziative per spezzare l’omertà e l’alleanza con “l’area grigia”, recidere i rapporti di complicità tra alcuni soggetti appartenenti agli ordini professionali ed alle imprese, dediti a favorire gli schemi di riciclaggio.

Come dire: Quieta non movere et mota quietare! Nella sostanza il problema è noto ma, se si escludono gli sforzi di magistratura e forze dell’ordine, sembra che la politica parli del tema dell’economia illegale ma sia restia a combatterla come se da questa traesse vantaggi o da questa lotta temesse più ritorni negativi che risultati proficui.

In ultimo va detto che i proventi dell’economica in nero producono un forte e diretto danno all’economia pulita anche per un aspetto che non c’entra nulla con la fiscalità che viene semplicemente ignorato dai Guru della finanza istituzionale.

Difatti l’attuale normativa antiriciclaggio, pur nella sua poca efficacia generale, con il provvedimento della tracciabilità dei movimenti di denaro ha prodotto un effetto perverso (e indesiderato) di ridurre la massa monetaria in circolazione.

Più precisamente, il rilevante cash che deriva dall’attività criminale, non trovando facili canali di “ripulitura” per le norme bancarie di antiriciclaggio che ne impediscono l’impiego, trova la via dell’estero (così come grandissima parte delle rimesse in patria dei lavoratori in nero). La massa di denaro che va all’estero riduce la cartamoneta in circolazione in Italia, e - data la rilevanza dei volumi interessati - influenza in modo sensibile la crisi economica e contribuisce negativamente anche sul volume dell’interscambio monetario tra le nazioni.



Valori in euro dei beni sequestrati e confiscati dal 1992 - al 30/06/2020


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