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Immagine del redattoreMario Landolfi

Derby in famiglia per la Lega

Che cosa sta succedendo nel Carroccio? Scontro tra "movimentisti" e "governisti".

A confronto le strategie di Salvini e quelle di Giorgetti e dei governatori. Ritorna il tema dell'autonomia.

Luca Zaia, Matteo Salvini e Giorgia Meloni

C’è chi la vede salda, chi giura di avvertirne gli scricchiolii e persino chi non ci scommetterebbe neppure il famoso dollaro bucato degli spaghetti western.

Parliamo della leadership di Matteo Salvini: non sul centrodestra, ma sulla Lega. Già, che succede la dentro? I quotidiani, si sa, hanno esigenza di semplificare.

Non stupisce perciò che abbiano ridotto la guerra a bassa intensità che vi si combatte ad un derby tra i governisti alla Giorgetti e i movimentisti modello BB (Borghi e Bagnai).

Una contrapposizione tutto sommato ordinaria tra chi aspira ad assegnare al Carroccio un ruolo stabilizzante nella prospettiva di un’adesione al Ppe e chi, al contrario, punta ad esaltarne l’imprevedibile spirito corsaro.

Messa così, tuttavia, si fatica a comprendere perché queste due visioni sul ruolo e sulle prospettive della Lega, per quanto tra loro effettivamente distanti, potrebbero e/o dovrebbero mettere a repentaglio la leadership di Salvini. Infatti, non potrebbero e non dovrebbero.

A meno che la differenza di visione non rappresenti la classica punta dell’iceberg contro il quale la nave del Capitano rischia di infrangersi per poi colare a picco.

Fuor di metafora, è fin troppo evidente che la nascita del governo Draghi abbia complicato la vita a Salvini più di quanto non lo abbia mondato dalla sua pretesa e presunta impresentabilità (concetto alquanto sfuggente in politica).

Anzi, a dirla tutta, più che la sua decisione di far entrare la Lega nell’esecutivo potè (a guastargli la minestra) la decisione di non entrare da parte della sua alleata e rivale Giorgia Meloni.

Dopodiché è stato lo stesso Salvini a darsi il colpo di grazia zigzagando lungo il confine che separa la maggioranza opposizione nell’illusione di tenersi la botte piena e la moglie ubriaca. Purtroppo per lui, la tattica delle sliding doors non funziona sulla lunga distanza.

Ma è quella la strada che ha imboccato e, almeno a dar retta ai sondaggi, con risultati tutt’altro che incoraggianti.

Quelli più lusinghieri accreditano infatti al suo partito uno stentato 20 per cento, neanche lontano parente del 34 incassato alle elezioni europee di due anni fa. Lega e Fratelli d’Italia viaggerebbero così quasi appaiati.

E poiché nel centrodestra vige il principio in base al quale è leader della coalizione il capo del partito più votato, Salvini teme stia scoccando l’ora di riporre nel cassetto i suoi sogni di gloria. Da qui il suo attivismo per recuperare quota. Ma è un attivismo scomposto, rapsodico, da pesca delle occasioni. Una sorta di gratta e vinci da cui spera di tirare fuori proposte e soluzioni. Le trova pure, ma spesso hanno la longevità di una farfalla effimera.

Come l’estemporaneo e confuso progetto di federazione con Forza Italia, l’altro segmento della coalizione che gli tiene compagnia nella maggioranza di unità nazionale.

Ufficialmente ideato per meglio raccordare l’attività dei due alleati e per sviluppare una maggiore massa critica nella maggioranza dei “quasi tutti”, punta in realtà ad un obiettivo assai più prosaico: sommare - quando sarà - i voti leghisti a quelli forzisti e vanificare così l’assalto al cielo di Giorgia Meloni. Basta questo per capire quanto sia avventuristico e velleitario, almeno per due ordini di fattori.

Il primo: l’esperienza impone di ricordare che in politica quasi mai due più due fa quattro. E’ vero semmai il contrario e cioè due partiti che si fondono subiscono inevitabilmente un’emorragia di consensi. Il secondo è più politico anche se è purtroppo più frequente nella chirurgia e si chiama “crisi di rigetto”, vale a dire il rifiuto di plurimi segmenti di Forza Italia - l’ala più centrista, quella più filo-Ue e, infine, l’anima sudista - ad andare oltre l’alleanza tradizionale con la Lega. Il progetto è infatti silenziosamente tramontato ancor prima di sorgere.

Il colpo di grazia glielo ha assestato l’1,2 per cento in più registrato dal sismografo demoscopico di Nando Pagnoncelli in favore del partito di Berlusconi. Una boccata d’ossigeno per un partito da tempo in asfissia elettorale come Forza Italia, dove è risuonato come un segnale di cessato pericolo.

E siamo all’oggi: tallonato nei sondaggi da FdI e fallita l’annessione di Forza Italia, Salvini ha puntato le sue speranze di riscossa sul corpo a corpo con la Meloni, elevando - appunto - a strategia la tattica delle porte girevoli o, se si preferisce, delle targhe alterne, un giorno maggioranza e l’altra opposizione. È il motivo per il quale entrambi recalcitrano sull’estensione del Green Pass in favore dei tamponi gratuiti per chi non vuole vaccinarsi: in palio ci sono milioni di voti no-vax ormai orfani della sponda grillina e in cerca di nuovi approdi.

Certo, non è un buon biglietto di presentazione per una forza di governo, ma scopo dei partiti - sostiene qualche pragmatico - è vincere le elezioni. E ora, nelle città, si vota.

Non deve perciò stupire se, più che alle performance dei vari candidati sindaco, i leader di Lega e FdI (e non solo loro, ovviamente) guarderanno al dividendo elettorale staccato dai rispettivi partiti.

Ed è proprio in questo duello politico-elettorale, in realtà lotta per la leadership che occorre inserire le tensioni leghiste e individuarne la vera posta in gioco. L’impressione è che i governisti - Giorgetti e i governatori, Zaia su tutti - comincino a considerare l’ambizione di Salvini come troppo onerosa per il Nord, loro unico e vero ancoraggio identitario e orizzonte programmatico.

L’hanno assecondata fin quando il loro leader ha avuto il vento in poppa.

Hanno fatto buon viso a cattivo gioco persino quando, trasportato dall’onda anti-immigrazione, Salvini è sbarcato al Sud, pur consapevoli che l’abbraccio con il Mezzogiorno avrebbe potuto annacquare il vino dell’autonomia regionale, più nota come “indipendenza della Padania”. Audacia, certo, ma anche fortuna, sempre che così si possa definire lo scoppio della pandemia.

Il progetto di Lega nazionale può infatti reggere fino a quando l’emergenza-virus tiene lontano dalle prime pagine dei giornali il progetto dell’autonomia differenziata in favore di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, messo sulla rampa di lancio dal premier Gentiloni poco prima di essere sfrattato da Palazzo Chigi.

Un progetto che trasferisce nuove competenze e ulteriori risorse a quelle tre Regioni, rimpicciolendo in conseguenza la quota di fondi destinata al Sud.

Se ne parlava molto prima che il virus facesse irruzione nelle nostre vite.

Ma domani? Già, è solo un caso che mentre la fase acuta dell’emergenza va in dissolvenza, riacquisti attualità il “dossier autonomia”? Prova ne sia l’insistenza con cui Zaia ha ripreso a tambureggiare sollecitandone l’attuazione.

È il segno che la Padania torna a contare per la Lega più delle ambizioni di leadership del suo capo.

Chi rischia è lui. Già barcolla a tenere il piede in due staffe, quella della maggioranza e dell’opposizione, figuriamoci se così conciato può azzardare prove di equilibrismo tra Nord e Sud.

Ma senza i voti da Roma in giù non ci può essere ambizione di leadership nazionale. Il bivio è questo, ma sembra che il Capitano ci stia da solo.

L’impressione è che l’altra Lega, quella dei Giorgetti e degli Zaia, abbia già scelto, secondo storia e secondo geografia: “prima il Nord”.

Quindi avanti tutta sulla stabilità politica, all’insegna del Draghi for ever.

Il sogno di leadership nazionale di Salvini può attendere.


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