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Immagine del redattoreAlessandra Lupi

Da Colleferro a Ceprano, la lunga scia dell'inquinamento

L'emergenza ambientale nella Valle del Sacco. Interventi di bonifica e mobilitazioni popolari.

Nelle immagini alcuni siti industriali della Valle del Sacco e del fiume

Fabbriche ormai chiuse, proprietari spariti o sotto inchiesta, curatori fallimentari e un inquinamento a carico di chi vive in questa zona: da Colleferro a Ceprano, sono una settantina i km interessati.

E' la Valle del Sacco (Sin, sito di interesse nazionale per l'inquinamento del bacino) tra la zona a sud di Roma e la provincia di Frosinone, uno dei posti più avvelenati d'Italia, forse anche d'Europa, come è emerso dai vari report che hanno attribuito il triste primato.

Come si apprende dal Dep Lazio, dipartimento di epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale, dal marzo 2005 è stato riconosciuto lo stato di emergenza ambientale per la valle del fiume Sacco in seguito al riscontro di livelli di beta-esaclorocicloesano (β-HCH) molte volte superiori ai limiti di legge in campioni di latte crudo e su foraggi prelevati in alcune aziende agricole del comprensorio di Colleferro.

Le analisi effettuate hanno accertato un inquinamento ambientale di ampia estensione legato alla contaminazione del fiume Sacco da discariche di rifiuti tossici di origine industriale (contaminazione delle acque e utilizzo a scopo irriguo) a cui sono stati esposti gli animali e la popolazione umana.

Per valutare lo stato della salute della popolazione in rapporto alle esposizioni ambientali, la Regione Lazio ha promosso nel 2006 il progetto “Salute della popolazione nell’area della Valle del Sacco” coordinato dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale del Lazio.

Il programma comprendeva uno studio di biomonitoraggio che ha evidenziato un aumento della concentrazione di β-HCH all’aumentare dell’età, per i residenti entro 1 km dal fiume Sacco.

L’attenzione su queste zone, centro dello sviluppo industriale della Regione dagli anni Venti del Novecento, inizia proprio nel 2005 quando 25 mucche sono state ritrovate morte vicino alle rive di un ruscello ad Anagni, avvelenate dal cianuro scaricato abusivamente nel rio Santa Maria, affluente del Sacco, vicino Sgurgola.

Un caso isolato ma con l’effetto di concentrare l’attenzione sull’inquinamento decennale del fiume che attraversa un paesaggio ricoperto da discariche, siti contaminati e capannoni industriali. Pochi mesi prima, un controllo aveva rilevato che il latte prodotto in una fattoria vicino Gavignano conteneva residui tossici, tra cui il betaesaclorocicloesano, trovato anche nei residui di formaggio e latte in altre 36 aziende agricole della zona. I controlli a campione e le indagini successive, avviate dalla Regione Lazio, hanno portato fino al Fosso Cupo dove è stato trovato il betaesaclorocicloesano. Riversato illegalmente, aveva contaminato il fiume, le falde idriche superficiali e i pozzi usati dai cittadini, i terreni. Insolubile e di difficile espulsione, la sostanza si era accumulata nella frutta, nella verdura e nel bestiame, poi negli esseri umani.

Nel 2009 la Regione mette in atto un programma di “Sorveglianza sanitaria ed epidemiologica della popolazione residente in prossimità del fiume Sacco”, nell’area identificata a rischio.

In due rapporti tecnici successivi al 2012, il Dep ha sottolineato il bioaccumulo della sostanza, ovvero livelli di persistenza che rimanevano alti nel tempo, per la popolazione presa in esame e l’aumento dei casi di tumore alla pleura, ai polmoni, allo stomaco, oltre a un incremento di patologie legate alla tiroide e di casi di diabete.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Roma “La Sapienza”, coordinati dalla professoressa Margherita Eufemi del Dipartimento di Scienze Biochimiche del polo universitario, ha studiato gli effetti sulle cellule provocati dal betaesaclorocicloesano.

Secondo quanto dimostrato dai primi studi, la sostanza tossica attiva meccanismi molecolari che portano alla formazione di patologie tumorali.

Inoltre la ricerca ha evidenziato che il betaesaclorocicloesano velocizza i meccanismi cellulari che rendono il tumore più aggressivo e resistente ai farmaci biologici e meno invasivi rispetto, per esempio, alla chemioterapia.

Una delle radici dell’inquinamento della valle del Sacco viene fatto risalire alla produzione di DDT da parte della Caffaro: fusti contenenti i residui della lavorazione sono stati interrati fino agli anni Ottanta.

Il beta-esaclorocicloesano ha così avvelenato la catena alimentare. Alla fine del 2004 fu accertata la contaminazione del latte prodotto. Sulla vendita di latte inquinato a caseifici, anche di Roma, è partito nel 2010 un processo che vede imputati ex dirigenti dello stabilimento Caffaro, della Centrale del Latte di Roma e del Consorzio che gestiva lo scarico delle acque della Zona industriale di Colleferro.

Nel 2011, la Rete per la tutela della valle del Sacco (Retuvasa) ha denunciato che “un colleferrino di mezz’età preso a caso, non professionalmente esposto all’inquinante in questione, residente da sempre in città a 2 chilometri dal fiume, presenta una concentrazione di beta-HCH nel siero di 223 nanogrammi/grammo di grasso, e dunque ha nel proprio corpo una quantità del pesticida 12 volte superiore alla media nazionale ed europea considerata oggi più attendibile. Il dato isolato ovviamente non prova nulla, ma suggerisce l’opportunità di acquisirne altri omogenei. Per quanto riguarda il 55 per cento dei contaminati residenti entro 1 chilometro dal fiume, in certi casi il valore riscontrato è anche 50 volte superiore alla media nazionale ed europea.”

Dopo l’esplosione del caso mediatico, che portò a mobilitarsi anche istituzioni regionali e nazionali, lo sversamento probabilmente non fu più ripetuto.

Infatti, successive analisi riscontrarono un ritorno al di sotto della soglia di legge del cianuro nel ruscello. Ma rimane la gravità di un episodio che documenta, una volta di più, l’impropria gestione di molti rifiuti pericolosi industriali nell’Italia dei veleni. Nel 2001 in Provincia di Frosinone furono ben 122 le discariche dismesse individuate, a cui vanno aggiunte altre centinaia abusive, e che almeno dal 1980, hanno contaminano i terreni e le falde. Inoltrandosi nei campi poteva capitare di individuare pozzanghere di nauseabondo di colore viola.

Il sito in questione è frutto di un disinteresse del rispetto delle norme di tutela ambientale che nasce da lontano, sin dagli anni Settanta.

E, come sempre accade, dopo una lunga fase di industrializzazione, che ha visto la produzione anche di materiale bellico ed esplosivi, periodo in cui il lavoro è stato messo al primo posto anche contro le minime regole di tutela ambientale, a seguito della chiusura di decine di grandi stabilimenti, arriva il conto.

Numerosi gli opifici della ciociaria che hanno influito negativamente sull'avvelenamento delle zone circostanti; mancanza di regole e norme precise in materia di tutela ambientale e il menefreghismo generale, sono state la rovina del territorio.

Anche dopo la loro chiusura, alcuni di questi opifici, cartiere esattamente, continuano ad essere una bomba ambientale: la cartiera di Atina, sgombrata da poco era divenuta (speriamo di no ma tornerà sicuramente a breve) una discarica a cielo aperto e le due cartiere di Ferentino e Ceprano in attesa di bonifica.

Parliamo di siti importanti anche dal punto di vista storico, vaste aree che potrebbero essere recuperate e riutilizzate, o meglio convertite in altri usi.

Molte polemiche attorno proprio alla bonifica della cartiera di Ferentino, gli ambientalisti lamentano promesse e parole al vento, le associazioni di cittadini di Ferentino ritengono che non siano più tollerabili ulteriori ritardi, tenuto conto che la prima notizia della contaminazione risale al 2014, l’inserimento nel SIN al 2016, l’accertamento di urgenza dell’intervento effettuato dall’Ispra risale al 2017, ed a tutt’oggi si è ancora in attesa che siano finalmente avviate -nel concreto e non solo sulla carta- le opere di bonifica. Stupisce ed amareggia il fatto che, come la maggior parte delle volte accade, a farsi carico di sollecitare l’esecuzione degli interventi di bonifica e l'avvio le relative azioni, siano le associazioni di cittadini, nel silenzio e nel disinteresse degli enti locali.

Simile situazione e sorte per la cartiera di Ceprano, il 7 marzo 2019 aveva segnato una data epocale per la Valle del Sacco, erano stati assegnati sei milioni di euro per le bonifiche, ma tutt'ora nulla si è mosso.

La battaglia è durata cinque anni per vedere riconosciuta l'irrinunciabile azione di bonifica necessaria per restituire prospettive di vita a un territorio avvelenato da ignoti perché di fatto, ad oggi, non si conoscono i responsabili degli interramenti dei rifiuti mortali, ma da allora nulla è stato fatto.

A marzo 2019 il ministro dell’Ambiente Sergio Costa e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti hanno firmato un accordo per la bonifica del Sin con un finanziamento di 53,6 milioni di euro.

A ottobre dello stesso anno sono iniziate le prime bonifiche nella zona di Colleferro denominata Arpa 2 che risaneranno un ettaro e mezzo di territorio inquinato.

La situazione sta pian piano cambiando, tanto che il 2020 è stato in parte l'anno della svolta con l'avvio delle prime bonifiche arrivate anche grazie all'impegno e alla mobilitazione di associazioni, cittadini e istituzioni, con queste ultime che hanno mutato il loro atteggiamento grazie alle continue mobilitazioni pubbliche.

La strada è ancora lunga, a causa anche del covid, che ha rallentato i buoni propositi e i lavori in corso che sembravano finalmente avviati.



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