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Immagine del redattoreSilvano Moffa

Cigni neri e scelte obbligate

Prima la pandemia, poi la guerra russo-ucraina.

Camera di Commercio Roma

Un recente Report della Camera di Commercio di Roma fotografa le ripercussioni sull’economia romana. Il quadro è allarmante. Lo scenario desolante.

Se pure qualche segnale di ripresa si era intravisto, non solo a Roma e nella sua provincia ma un po’ in tutta Italia, dopo le chiusure forzate imposte dal Covid e le innumerevoli restrizioni decretate dal governo, la guerra in Ucraina ha letteralmente capovolto le previsioni.

Siamo ormai in piena stagnazione. Ossia nella condizione caratterizzata da una fase economica debole accompagnata da un consistente aumento dei prezzi, dalla contrazione della domanda e dell’occupazione.

Quel che è peggio, nessuno è in grado di dire se la recessione sarà di breve periodo o se perdurerà. In quest’ultimo caso entreremmo nella fase che gli esperti chiamano di stagflazione, termine utilizzato per la prima volta dal politico inglese Iain Macleod per indicare il peggio derivante dalla combinazione delle due parole: stagnazione e inflazione.

Il conflitto, le tensioni geopolitiche, il forte aumento dei prezzi, in particolare del gas e delle fonti energetiche, rappresentano ormai più di una minaccia anche per l’economia del nostro territorio.

Su un panel di 500 imprese selezionate dall’Osservatorio della Camera di Commercio, rappresentative delle attività economiche di Roma e provincia, l’impatto economico del Coronavirus prima, e ora le possibili conseguenze del conflitto russo-ucraino indicano per il 52,8% delle aziende un peggioramento di prospettive rispetto all’inizio dell’anno.

Di queste imprese, il 42,6 % teme che nel 2022 possa esserci una riduzione del fatturato rispetto al 2021, quando ancora eravamo in netto ritardo rispetto alle condizioni pre-Covid.

I dati del primo trimestre segnano per loro già una significativa contrazione di fatturato.

Ancora. Il 53,8% di imprese dichiara di non aver intenzione di effettuare investimenti nell’anno in corso e due terzi delle aziende intervistate non ne vuol sapere di incrementare i livelli occupazionali.

L’indagine mostra come l’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, segnalati da oltre il 50% delle aziende, si accompagni alle preoccupazioni per i bassi livelli di domanda.

Per contrastare il caro energia – si legge nel Report – il 14,2% delle imprese ha incrementato l’uso delle energie rinnovabili, mentre il 37 % ha ridotto i consumi. Il 13,7% ha cambiato fornitori, solo il 5,6% ha acquistato macchinari a minor consumo energetico.

Per il 66% delle imprese, comunque, a prescindere dalle azioni individuali per contrastare il caro energia è necessario l’intervento del Governo.

Per non parlare delle condizioni delle famiglie. Si è allargata l’area della povertà mentre, d’altro canto, si è ridotto enormemente il potere di acquisto di salari e pensioni, con i beni di prima necessità il cui prezzo è schizzato in alto, in alcuni casi spinto da effetti speculativi che si fatica a controllare.

Insomma, il quadro è preoccupante.

Le imprese romane si trovano nuovamente ad affrontare un drastico cambiamento dello scenario di mercato. Una situazione che si estende all’intera penisola.

Il fatto è che ci troviamo immersi nella guerra delle materie prime con l’Italia che è esposta più di ogni altro Paese ai contraccolpi del conflitto in atto nel cuore dell’Europa.

Siamo l’unico paese al mondo che dipende dallo Stato aggressore, la Russia, per gas e petrolio, e dallo Stato aggredito, l’Ucraina, per la filiera agro-alimentare.

Fare la parte del leone, in queste condizioni, è semplicemente velleitario e ridicolo.

Lo è ancor di più nella palese asimmetria di comportamento e di decisioni che proprio sul fronte dell’approvvigionamento del gas si registra tra alcuni paesi comunitari come Germania, Francia, Spagna.

Stiamo cercando, in vero, di sostituire le forniture di gas provenienti dalla Russia accordandoci con altri Paesi, come Algeria e Qatar, i cui regimi non sono certo meno autocratici e più rassicuranti di quanto lo sia quello russo.

Oppure importando gas liquido dagli Stati Uniti, con costi molto più elevati, in mancanza di rigassificatori. Ma tant’è.

Lo scellerato pseudoambientalismo di questi anni e la rinuncia a realizzare una via autonoma di politica energetica che ci svincolasse da una condizione di totale dipendenza dagli altri paesi ci ha ridotto ad elemosinieri. Elemosinieri a caro prezzo, però.

Resta il Pnrr, ossia l’unico strumento finanziario che l’Europa concede per provare a rimettere in sesto la nostra economia, il sistema infrastrutturale e i nostri conti pubblici più che disastrati.

Ad una condizione: che si sappia cogliere questa opportunità. Il condizionale è d’obbligo.

Lo è, soprattutto, perché non è ancora chiaro come e dove saranno spesi i soldi che l’Europa ha messo a disposizione e che dovremo restituire.

E qui veniamo al punto che ci interessa mettere in rilievo.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, lo ripetiamo, è l’unico strumento che abbiamo per far fronte al costo dei due cigni neri, pandemia e economia di guerra.

L’unico mezzo per ricucire territori squilibrati, riducendone il divario, per orientare lo sviluppo di aree produttive e realizzarne di nuove evitando duplicazioni, cattedrali nel deserto, iniziative abborracciate solo per drenare risorse senza utilità per le attività imprenditoriali e per la ricchezza dei territori.

Temiamo – e non siamo i soli a denunciarlo – che spuntino qua e là i famigerati “progetti bandiera” delle Regioni. Il timore trova conferma nella stucchevole convegnistica cui è dato assistere (il Lazio non è da meno) sui contenuti attuativi del Pnrr.

Si badi, nove volte su dieci i “progetti bandiera” non sono altro che rimasugli cartacei ingialliti negli archivi regionali. Roba da gettare nel cestino.

Progetti il cui unico scopo è quello di far gestire una considerevole massa di denaro dagli enti regionali. Gli stessi che, nell’uso dei fondi strutturali, hanno mostrato in passato scarsa o nulla capacità di spesa.

Molti di quei fondi, grazie a dabbenaggine e imperizia, sono finiti altrove.

I ritardi infrastrutturali di cui l’Italia paga lo scotto derivano per lo più da questa mancanza di regia, oltre che dalla poca validità di proposte progettuali.

Quando, al contrario, i progetti sono validi e cantierabili, a rallentarne l’esecuzione ci si mettono la burocrazia e il groviglio mostruoso delle competenze articolate nelle varie autorità.

Se vogliamo che il Pnrr funzioni, e che non vadano in fumo risorse indispensabili per il futuro nostro e delle nuove generazioni, bisogna che la leva dell’azione sia affidata a Ministeri e Comuni.

Allo Stato e ai territori. Alle Regioni spetta un compito diverso. Certo non quello di decidere i progetti che vanno finanziati, aiutando i Comuni amici e lasciando all’asciutto quelli nemici.

Ci vuole una struttura centrale che non si perda nel chiacchiericcio inconcludente dei convegni, ma curi oculatamente le scelte strategiche di cui il Paese ha bisogno. Sulle scelte strategiche indicate nel librone del Pnrr sono ormai tutti d’accordo. Occorre che la struttura centrale coordini i soggetti tecnici periferici per far decollare gli investimenti.

E laddove sia necessario intervenire di forza, lo si faccia. Su estrazioni e fonti rinnovabili che altro dobbiamo aspettare? Sulla realizzazione dei termovalorizzatori per produrre energia dai rifiuti e smettere di inviarli all’estero pagando due volte, sia per liberarcene sia per comprare energia fornita da quegli stessi impianti che contribuiamo ad alimentare, è tempo di farla finita con noiosi dibattiti privi di fondamento tecnico e di valenza scientifica.

Finché siamo in tempo, utilizziamo cervelli e professionalità adeguate, richiamando anche quei “cervelli” fuggiti all’estero invogliandoli a partecipare al rilancio del nostro Paese, offrendo loro la straordinaria opportunità di trasformarsi in protagonisti di un patriottismo virtuoso e produttivo.

Non suoni retorico l’uso del termine “patriottismo”.

Non ci può essere rinascita, e nessun Piano strategico degno di questo nome potrà mai essere portato a compimento, se non si anima lo spirito profondo di una nazione, se non si mettono in movimento tutte le energie positive, se non si fa leva sul senso di appartenenza dei cittadini alla Comunità di vita e di destino di cui si fa parte.

La sfida della modernizzazione è già cominciata. Non coglierla sarebbe delittuoso.

Su il Quotidiano, il direttore Roberto Napoletano ha scritto: “Siamo arrivati al dunque. Perché nel pieno del terzo cigno nero da (quasi) terza guerra mondiale diventa patetica la ricerca di nuovi libri bianchi sul Mezzogiorno o dibattiti astratti su quanto debba venire da fonti rinnovabili e quanto da gas e carbone. A nessun ministro e, tanto meno, a più o meno blasonati centri studi può essere consentito di fare perdere tempo a tutti perché in gioco c’è il futuro di milioni di posti di lavoro da difendere ora, non domani, con scelte che producono effetti, ora non domani”. Sottoscriviamo.


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