Il piano “Transizione 5.0” è oramai prossimo a diventare realtà grazie al decreto legge pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 2 marzo.
Questo è in attesa della sua effettiva applicazione, derivante dalla pubblicazione del decreto attuativo – attualmente il decreto legge è stato approvato dalla Camera ed è in attesa di essere approvato anche dal Senato – così da definirne le regole operative.
Il decreto è uno step fondamentale per l’aggiornamento e la regolamentazione delle direttive per la transizione green e per i processi aziendali di digitalizzazione e potrà costituire un tassello fondamentale per lo sviluppo industriale del nostro Paese.
Nel frattempo, le aziende già da tempo si stanno muovendo per efficientare le strategie aziendali a breve e a lungo termine per poter affrontare le sfide di sostenibilità e ridurre l’impatto climatico aziendale. Si sente sempre più forte la necessità di dover contribuire con azioni concrete e tangibili alla sfida alla decarbonizzazione al 2050 che si fa sempre più urgente e necessaria per raggiungere la prima soglia fissata a livello europeo al 2030.
Investire nel rinnovabile è necessario e quanto più inevitabile, certo, ma sarebbe del tutto insensato senza una rivoluzione alla base della struttura e delle strategie aziendali. Già nel 1997 si parlava dell’urgenza di agire per ridurre le emissioni di gas serra, una sfida che la comunità internazionale ha siglato nel cosiddetto Protocollo di Kyoto dello stesso anno, accordo che definisce gli obiettivi e le misure necessarie a far sì che questi vengano rispettati.
Da questo accordo nasce perciò il Greenhouse gas protocol (GHG), ancora ad oggi considerato il quadro di riferimento generale per la misurazione e la gestione delle emissioni di gas ad effetto serra che derivano da tutta la catena di operazioni – più o meno visibili - che sono alla base di un processo aziendale. I gas ad effetto serra si riferiscono a tutte le varie tipologie di gas che, assorbendo l’energia solare, contribuiscono ad intrappolare il calore nell’atmosfera, e che quindi sono responsabili dell’aumento preoccupante delle temperature globali e più in generale del cambiamento climatico di cui siamo testimoni oramai da qualche anno.
In questo senso, grazie al protocollo GHG, vengono fissati degli standard gestibili e degli strumenti a vantaggio delle aziende che intendono impegnarsi a modificare questi processi, costituendo così da linee guida per una corretta gestione delle operazioni grazie alla capacità di gestire un vero e proprio “inventario” di emissioni di gas serra prodotte, chiamato anche in gergo “impronta di carbonio aziendale”.
Grazie al GHG, abbiamo a disposizione anche uno standard di misurazione, chiamato Global Warming Potential, ossia il “potenziale di riscaldamento globale (GWP), che altro non è che l’unità di misura ufficiale dell’effetto radiattivo di un gas serra rispetto ad un altro, misurato su un orizzonte temporale che va da 20 a 500 anni, prendendo la CO2 come gas di riferimento.
In questo modo si misurerà sia la cosiddetta “efficienza radiattiva” (la capacità del gas di riferimento di assorbire energia), sia il suo tempo di permanenza nell’atmosfera. Idealmente, si misurerà l’incidenza di un determinato gas sul riscaldamento globale in un dato periodo di tempo, ponendo come termine di paragone le emissioni di una tonnellata di anidride carbonica.
La misurazione delle emissioni di gas serra - derivanti non solo dalla produzione, ma dall’intera filiera di operazioni che un’azienda si ritrova a dover affrontare e gestire durante il ciclo di produzione – diventa perciò fondamentale nel gettare la base di una strategia vincente, necessaria per impostare un nuovo modello di economia sostenibile, anche e soprattutto a livello aziendale.
Nell’ottica di fornire una struttura ben precisa, per poter impostare al più presto un piano di azione, infatti, il protocollo GHG ha stabilito una classificazione a tre “livelli” di emissioni associati al bilancio di CO2 aziendale (o Corporate Carbon Footprint). Si parla infatti spesso del concetto di “scope”, riferendosi agli obiettivi che ogni azienda è chiamata a raggiungere nell’espletare i processi e nel gestire le risorse dei suoi progetti. L’idea alla base è quella di una categorizzazione di questi obiettivi, che possa facilitare il completamento della sfida alla riduzione delle emissioni per le aziende, attraverso un processo semplificatore a tre fasi.
Gli obiettivi che ricadono sotto la fase di “scope 1” impatteranno le emissioni prodotte direttamente dalle fonti che sono di gestione aziendale, come l’energia, la combustione di caldaie, emissioni derivanti da veicoli della flotta aziendale o quelle che derivano da processi industriali o di produzione in loco.
Gli obiettivi classificati come “scope 2”, invece, riguardano le emissioni indirette derivanti dall’energia acquistata o acquisita, che viene generata al di fuori della sede ma che viene utilizzata nei processi aziendali.
L’impatto su questa categoria di emissioni diviene pertanto di fondamentale importanza, in quanto rappresenta una delle maggiori fonti di emissioni globali di gas ad effetto serra, quasi pari ad un terzo di queste.
Infine, alle aziende verrà richiesto - lasciando in questo caso una flessibilità maggiore alle aziende sulle modalità di intervento - di procedere anche con la riduzione delle emissioni categorizzate come emissioni “scope 3”, che comprendono tutte le emissioni indirette che però impattano la catena del valore di un’azienda. È il caso delle cosiddette “emissioni a monte” (beni e servizi acquistati, viaggi di lavoro, pendolarismo dei dipendenti o attività legate ai servizi) e delle “emissioni a valle”, che comprendono invece le emissioni di tutti quei beni o servizi dopo che questi hanno lasciato il controllo dell’azienda.
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