Marco Sabene, inviato del TG2 e nostro collaboratore, racconta l'esperienza di corrispondente di guerra a Leopoli, in Ucraina, tra paura, gente che fugge e bombardamenti.
Non è facile raccontare una guerra. Per un giornalista è uno dei mestieri più pericolosi al mondo.
L’informazione a volte presenta un conto molto alto.
Sono tanti i giornalisti uccisi mentre cercavano di fare il loro mestiere.
Anne Nivat, free-lance francese, inviata dall’Afghanistan e dalla Cecenia, nel corso di una audizione dinanzi al Parlamento europeo, qualche anno fa disse: “Sappiamo che potremmo non tornare, ma dobbiamo raccogliere le storie sul campo, altrimenti tutto quello che raccontiamo farebbe affidamento sui comunicati stampa ufficiali delle organizzazioni e dei governi coinvolti”.
Raccontare, spiegare alla gente cosa sta davvero succedendo, le sofferenze di chi la guerra la subisce, la disperazione dei profughi, gli occhi spaesati dei bambini, la rassegnata impotenza degli anziani, e poi i cadaveri sul selciato, brandelli di carne sfregiata, abbrustolita nel fuoco delle bombe e dei missili, il pianto soffocato di chi, in un attimo, ha perso tutto quel che aveva di più caro e familiare, palazzi distrutti, sventrati, filiformi figure spettrali, macerie di un paesaggio reso irriconoscibile dalla furia devastante dei cannoni.
Oggi in Ucraina una parte del racconto del conflitto arriva da video, foto e notizie provenienti dai telefonini di persone semplici. E’ il cosiddetto citizen journalism, la cui attendibilità è tutt’altro che scontata. Pregi e difetti dei social network.
Poi ci sono le grandi testate.
Per la guerra russo-ucraina il numero degli inviati dipendenti dalle testate riconosciute è alto. Stati Uniti e Regno Unito hanno mandato sul campo oltre 50 di questi giornalisti ciascuno.
Numerosi anche i giornalisti italiani. Tra questi il nostro Marco Sabene, inviato del Tg2, colleferrino.
La sua è la prima esperienza di corrispondente di guerra. Tra un servizio e l’altro siamo riusciti a sottrarlo per un momento al suo duro lavoro e a scambiare con lui alcune impressioni sulla guerra vista da vicino.
Caro Marco, seguiamo con apprensione i tuoi servizi da Leopoli, lì dove infuria questa dannata guerra. I tuoi reportage sono sempre coinvolgenti. L’informazione mai banale e sempre efficace.
Come stai vivendo questi terribili momenti?
Voglio essere onesto, è qualcosa che ti pone al di fuori della realtà e, purtroppo, ti getta in un mondo che pensavi non potesse appartenerti. Eppure, il suono degli allarmi antiaerei, la corsa verso il bunker, intere famiglie che si prendono per mano e cercano rifugio sono cose che ti ricordano che tu sei lì e mai nella vita avresti pensato di poter essere un inviato di guerra.
Fare oggi informazione corretta e oggettiva, soprattutto nelle condizioni date, non è facile.
Con il martellare dei bombardamenti, l’ululare delle sirene.
La gente spaventata che cerca riparo nei rifugi e le bombe a grappolo che squarciano l’oscurità del cielo e seminano morte e distruzione, il corrispondente di guerra convive con il dramma di quelle popolazioni.
Anche se sappiamo che in guerra ogni giorno è diverso dall’altro, ogni giornata porta la sua pena, ti vediamo impegnato, nei tuoi reportage, a raccontare e documentare in particolare la dimensione umana del conflitto. Che cosa ti ha colpito principalmente?
Mi ha colpito la paura. Mia, dei colleghi e degli ucraini. Mi ha colpito il ripetere incessante delle persone “nessuno è al sicuro”. Mi hanno colpito i treni della salvezza che partono ogni giorno da Leopoli e si dirigono verso i paesi dell’Unione europea, così vicina ma così distante.
I padri devono separarsi da figli e mogli perché la legge marziale li obbliga a rimanere in Ucraina, abili e arruolati.
Mi hanno colpito i bambini del centro oncologico pediatrico dell’ospedale di Leopoli. Spaesati. Bisognosi di cure particolari. Ma dovevano essere trasferiti da lì perché l’ospedale si trova vicino a una fabbrica di parti di carri armati, quindi in un sito sensibile. Per questi piccoli e le loro famiglie la tragedia nella tragedia: un male spesso incurabile e la follia di una guerra. Quello è stato forse il momento più delicato di questa trasferta.
Hai intervistato padri religiosi e fatto vedere momenti emozionanti della preghiera di questa gente martoriata.
Che cosa può insegnarci quella incessante comunione di fede proveniente da chi dalla guerra ha perso tutto?
L’esperienza con padre Andrij è stata molto forte. Lui ha vissuto 15 anni in Italia, parla molto bene la nostra lingua.
Mentre discutevo con lui è risuonato l’allarme antiaereo per l’ennesima volta quel giorno.
Con calma estrema ha fatto uscire tutti i fedeli dalla chiesa, serrato le porte e invitato tutti, noi compresi, a scendere nel bunker. Almeno quattrocento persone nel grande bunker sotto la chiesa.
Tutti riuniti in preghiera, lui e padre Oreste a parlare con Dio per la fine della guerra.
Mi ha regalato un rosario che custodirò gelosamente.
Appena tornato a casa lo metterò al collo di mio figlio, spero lo protegga.
E’ stato un momento che non dimenticherò mai.
Il giornalismo di guerra ha avuto un ruolo importante fin dai tempi antichi, dall’epoca di Giulio Cesare. Ma con le tecnologie di oggi, la Tv e i social, tutto è cambiato ed è diventato complesso. Garantire un’informazione che non sia di parte è una sfida nella sfida.
Indro Montanelli, con Luigi Barzini fra i più grandi corrispondenti di guerra del nostro giornalismo, pur essendo schierato dalla parte dei franchismo riuscì a raccontare in modo imparziale gli eventi di quella guerra.
Pensi che il giornalismo attuale sia in grado di garantire terzietà nella informazione?
Credo che i giornalisti del servizio pubblico stiano facendo e abbiano fatto un grande lavoro.
Non lo dico per appartenenza, ma la Rai in queste situazioni dà il meglio di sé.
Come Reporter, più che in altri casi, devi avere rispetto per chi ti ascolta, devi filtrare nella maniera più vicina alla realtà tutto quello che stai vedendo in quel momento. In alcuni casi, altre testate hanno fatto ricorso al sensazionalismo, hanno storpiato eventi e hanno esagerato nei reportage.
Ho assistito personalmente a intrattenitori televisivi che hanno provato ad allestire un teatrino anche in una zona di guerra. Ma il pubblico li ha puniti. Il mondo mediatico, quello social, se vuole, sa riconoscere un buon giornalista e sa smascherare un mastro circense.
Leopoli, popolosa città, è uno dei maggiori centri culturali dell’Ucraina. Raccontaci di questa città. Quali le tue impressioni?
Leopoli fa parte della storia dell’Europa e dell’Unione sovietica. Ma fa parte della Storia con la S maiuscola. Leopoli è per eccellenza la città ucraina più antirussa che ci sia. Non si è mai sentita russa anche prima dello sfaldamento dell’Unione sovietica. E’ un meraviglioso borgo di quasi ottocentomila abitanti impreziosito da un centro storico patrimonio dell’Unesco.
Oggi è divisa a metà, tra chi prova a dimenticare la guerra e chi fugge, la stazione dei treni è una gigantesca tendopoli dove ogni giorno passano migliaia di persone in cerca di futuro.
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